Loving – quinto film di Jeff Nichols (Take Shelter, Mud) regista amato a Cannes e protagonista della new wave del cinema indie americano – già dal titolo trae in inganno lo spettatore, che potrebbe temere di trovarsi di fronte al più classico dei polpettoni romantici.
Ma Loving altro non è che il vero cognome dei protagonisti della storia (un fatto di cronaca notissimo oltre oceano), e il film stesso lascia l’amore quasi a margine del racconto, per concentrarsi sulla questione dei matrimoni misti, fino a sessanta anni fa illegali in molta parte degli Stati Uniti.
Richard Loving, magistralmente interpretato da Joe Edgerton, nel 1958 viene condannato nella sua ruralissima Virginia per aver sposato, in uno Stato più liberale, una donna di colore. I due così, da quella amata/odiata Virginia vengono allontanati con la forza. Potrebbero limitarsi all’esilio e rassegnarsi ma loro invece, soprattutto la caparbia Mildred – una magnifica Ruth Negga che per questo ruolo si è guadagnata una candidatura all’Oscar – decidono di non mollare e fanno appello alla Corte Suprema. Vinceranno i buoni o i cattivi?
L’ultima fatica di Nichols è un film sensibile, caldo ma forse sin troppo educato. Il regista segue la storia di marito e moglie con un occhio attento ai particolari, ai sospiri, alle mani che si intrecciano e agli sguardi fuori dai finestrini ma non convince del tutto nel narrare durezza, grinta e dolore della lotta per un diritto. Non perde mai un tocco docile e armonico nel riportarci queste due anime condannate a fuggire per amarsi – e in questo interpreti e fotografia contribuiscono decisive – ma alla fine ci pare abbia un po’ pasticciato nel mettere a fuoco il tema del film. O nel trasmettercelo.
Vedendo Loving, che sembra quasi avere pudore nel raccontare il dolore della segregazione razziale statunitense – terminata solo ufficialmente nel 1965 – viene da chiedersi perché così spesso il cinema americano abbia perso le sue occasioni per affrontare un argomento – quello dei matrimoni misti – per questo paese così sentito e centrale.
Mi vengono in mente un paio di esempi, il mal invecchiato Jungle Fever di Spike Lee o il kitschissimo Made in America, entrambi dei primi anni novanta, diversi nel tono ma non poi così dissimili nelle propensione allo stereotipo, al politically correct e ai buoni sentimenti.
Tornando ancora più indietro con la memoria però – insomma, tra il vecchio – si trova il meno vecchio di tutti: è degli anni Sessanta l’indimenticabile Indovina chi viene a cena?, vero capolavoro di Stanley Kramer che guarda ai problemi razziali con lo sguardo felice della commedia senza però cadere nei cliché e nel buonismo a tutti i costi che distrugge tanti film più recenti.
Indovina chi viene a cena? offre uno spaccato unico nella mentalità e nel tessuto sociale (dell’epoca?), dove bianchi e neri si guardano con reciproco sospetto. La storia è semplice, due ragazzi di colore diverso si innamorano: Joanna, Katherine Houghton, è bella, bianca, ricca e… innamorata di un affermato medico afroamericano, Sidney Poiter, che ricambiandola decide di recarsi con lei a chiedere ai suoi genitori la mano della figlia. I due, interpretati da Spencer Tracy e Katherine Hepburn sono indimenticabili nel ruolo di genitori illuminati – liberal – ma pur sempre terrorizzati per quello che un matrimonio misto e le sue conseguenze potrebbero significare.
Il film si fa una domanda semplice ma efficace: amare liberamente o vivere schiavi del conformismo? Ovviamente trionfa l’amore, ma non è poi così scontato. E lo è ancora meno se si prova a raccontarlo – per l’appunto – col cuore, ma senza aver paura di graffiare.
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