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Ecco come Donald Trump in Siria rottama la strategia di Barack Obama

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I marines sono arrivati in Siria e un altro tabù obamiano è caduto. La politica del “leading from behind” e del “niente boots on the ground” viene cestinata dall’amministrazione Trump, che ha dato luce verde al trasferimento sul campo di 400 tra marines e Army Rangers. Mentre questi ultimi sono stati inviati a pattugliare Manbij, la città siriana liberata dalle forze curdo-arabe SDF, i marines saranno impegnati nelle operazioni per dare l’ultima spallata al califfato, espugnandone la roccaforte di Raqqa.

La svolta matura in un momento cruciale della lotta contro lo Stato islamico. Il suo controllo dei territori orientali in Iraq si sta sgretolando sotto i colpi dell’offensiva alleata, coi combattimenti casa per casa giunti ormai praticamente al termine: le forze irachene sono ormai nei pressi della grande moschea al–Nour, dove nel giugno 2014 fu proclamata la nascita del califfato.

Fonti di intelligence riferiscono che lo stesso Califfo avrebbe abbandonato la città, rifugiandosi nei villaggi sunniti a nord dell’Eufrate. L’approccio rivelatosi vincente a Mosul – una combinazione di truppe autoctone sul terreno e la potenza dell’air power e dell’artiglieria Usa – si ripeterà ora a ovest. I marines appena giunti in Siria fanno parte di un battaglione munito di armi pesanti, quelle che mancano ai circa 30 mila combattenti SDF cui la strategia americana ha affidato il compito di conquistare la capitale dello Stato Islamico.

Questi sviluppi non sarebbero stati possibili senza l”intesa con Mosca, giunta dopo l’incontro a tre tra i vertici delle forze armate americane, russe ed turche tenutosi qualche giorno fa ad Antalya, in Turchia. Il principale ostacolo era rappresentato dalle obiezioni turche sull’impiego dei curdi dell’Ypg inquadrati nelle SDF, che Ankara considera terroristi. Non è chiaro cosa Erdogan sia riuscito ad ottenere in cambio del suo assenso, ma è certo che l’amministrazione Trump ha lavorato sodo per convincere l’alleato Nato a non opporsi.

L’accordo di massima riguarda soprattutto la fase successiva alle operazioni militari: l’America avrebbe assicurato che ad occuparsi della stabilizzazione dell’area saranno forze arabe e non curde. Bisognerà vedere però che farà il presidente siriano Bashar al-Assad, le cui truppe si stanno proiettando verso Raqqa da sud-ovest.

La città sarà restituita al dittatore? Se così fosse, sarebbe ulteriormente compromessa la causa della rivoluzione anti-assadista, già azzoppata con la riconquista da parte delle forze siriane di Aleppo, caduta a dicembre sotto una terrificante pioggia di fuoco. Togliendo di mezzo l’attore jihadista più pericoloso, gli Stati Uniti di fatto agevolano i piani di Assad e questo non potrebbe che essere accolto con preoccupazione dagli alleati sunniti di Washington, più preoccupati per il settarismo sciita e per la longa manus dell’Iran più che per la barbarie islamista.

Ben consci di tutto ciò, i comandi americani hanno fatto sapere che la presenza Usa in Siria non verrà meno con la fine delle operazioni militari. Il grande gioco mediorientale è in ogni caso stato trasformato dalle decisioni statunitensi di queste ore. Decisioni che contribuiscono ad archiviare definitivamente l’era della riluttanza obamiana.

America is back.



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