I leader europei si riuniscono il 25 marzo per celebrare il 60esimo anniversario della firma dei Trattati di Roma. Un momento di riflessione geopolitica che sarebbe stato familiare ai sei leader europei che viaggiarono verso Roma per quell’occasione.
Nel 1957, le agitazioni nell’area Mena dominavano la scena a seguito della crisi del canale di Suez. Era anche un momento di grande apprensione per la crescita della minaccia russa. La Rivoluzione ungherese era stata drammaticamente schiacciata dai sovietici l’anno precedente. Pochi mesi dopo la firma dei Trattati di Roma, l’Unione Sovietica avrebbe testato con successo il suo primo missile balistico intercontinentale e lanciato in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik. Si erano tenute le elezioni della Germania Occidentale e, per la prima e unica volta nella sua storia, la Cdu-Csu aveva vinto con una maggioranza assoluta. Nelle ultime settimane del 1957, dopo la sua fondazione avvenuta nel 1949, la Nato teneva il suo primo summit dei capi di Stato per riaffermare i principi dell’Alleanza.
Sessant’anni più tardi, l’Europa resta focalizzata nella continua instabilità legata ai flussi migratori provenienti dal Medio Oriente – soprattutto Siria – e dal Nord Africa – in particolare Libia. Una parte di questa instabilità deriva dall’attivismo militare della Russia in Siria e, più di recente, in Libia. L’Ungheria, ora membro della Nato e dell’Ue, si oppone alle sanzioni europee contro la Russia derivanti dalla sua annessione illegale della Crimea avvenuta nel 2014 e dall’aggressione militare nell’est dell’Ucraina, e contrasta la “sovietizzazione” dell’Ue, accusata di imporre agli Stati membri le politiche di Bruxelles senza tener conto delle singole prerogative. Un summit dei capi di Stato dei Paesi Nato si terrà a maggio, ma per la prima volta nella storia dell’Alleanza, i membri europei non hanno certezza dell’impegno statunitense. E per completare il quadro, in Germania le elezioni parlamentari imminenti costituiscono una sfida al dominio della Cdu durato oltre dodici anni.
Anche se negli ultimi sessant’anni ci sono stati numerosi cambiamenti, molte cose sono rimaste uguali. L’instabilità globale resta una costante. Altrettanto costante, almeno finora, l’impegno di ferro degli Stati Uniti verso i propri alleati e l’architettura globale dell’Alleanza, faticosamente sviluppata in Europa e in Asia sin dalla fine della Seconda guerra mondiale per rispondere in modo più efficace ed efficiente a un contesto internazionale instabile. Questo impegno è stato ora messo in discussione da un presidente americano che ha pubblicamente affermato che la Nato è un’importante – per quanto obsoleta – entità, nella quale i partner dell’America si stanno approfittando della generosità americana non fornendo un contributo adeguato alle spese per la difesa. Il presidente Trump ha anche messo in discussione il concetto che l’unità europea sia un interesse strategico per l’America.
Per decadi, gli Stati Uniti si sono visti come una potenza europea e l’unità del Vecchio continente era concepita come uno degli interessi strategici più centrali. Questi approcci si sono lentamente disciolti man mano che gli Stati Uniti hanno iniziato ad allontanarsi fisicamente e intellettualmente dall’Europa, riorientando la propria politica verso la regione dell’Asia e del Pacifico (per scelta) e verso il Medio Oriente (a causa dell’improvvisa comparsa del cosiddetto Califfato).
Su entrambe le sponde dell’Atlantico c’è grande preoccupazione per il patto Usa-Russia in vista, che potrebbe determinare il futuro dell’Europa. Si tratta, però, di una distrazione dalla opportunità per gli Stati Uniti di riavvicinarsi all’Europa con un approccio positivo e proattivo delle relazioni transatlantiche – come fecero durante e a seguito della Guerra fredda. Oppure, l’opportunità di seguire il percorso intrapreso nella prima metà del XX secolo, quando presero le distanze dal ruolo di potenza europea (ironicamente proprio ciò di cui trattava il movimento “America first” di Wilson), finché non furono costretti ad agire con costi inimmaginabili. Se viene scelta la seconda opzione, quale sarà il costo più grande del XXI secolo? Un’aggressione maggiore della Russia contro i suoi Paesi vicini? L’elezione di forze anti-democratiche in Europa? Il collasso dell’economia dell’eurozona? L’instabilità dell’Europa causata da maggiori flussi migratori e attacchi terroristici?
A soli dodici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, avendo beneficiato del piano Marshall e del cappello Nato in termini di sicurezza, i leader europei che sottoscrissero i Trattati di Roma avevano compreso il valore degli Stati Uniti quale attore europeo e la necessità di un’Unione europea. Sessant’anni dopo, la comprensione storica è decaduta su entrambe le sponde dell’Atlantico.