Sette come le virtù e sette come i vizi. Attinge dalla tradizione numerica biblica Paolo Asolan per tenere le sue Sette lezioni sulla carità.
Lo fa in questo libro di recente pubblicazione (Sette lezioni sulla carità, edito da San Liberale, Treviso 2017) nel quale prova a raccontarci quella che Benedetto XVI definisce (al numero 2 dell’enciclica Caritas in Veritate) “il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, la sua promessa e la nostra speranza”.
Quella carità da subito diventata riflesso e cuore del Magistero di Francesco secondo cui “una Chiesa senza la carità non può esistere”. In queste pagine, l’autore sembra prenderci per mano per accompagnarci in un viaggio ideale fatto di sette tappe. Non a caso il primo approdo è la dimensione formativa (Asolan insegna Teologia pastorale alla Pontificia Università Lateranense) che non può ridursi a un mero “management della carità”, sterile, sistemico e burocatizzato ma deve partire dall’uomo.
La carità è cosa di cuore, investe la persona nella sua totalità, struttura il suo modo di percepire, di sentire, di agire e indica la strada da seguire. Una via dove i tranelli e le tentazioni sono all’ordine del giorno. Dove i labirinti dell’autoreferenzialità rischiano di disorientarci e di renderci pedine (post)umane funzionali a qualcosa, a qualcuno o esclusivamente a se stessi.
Asolan lo spiega bene nella sesta lezione nella quale costruisce un ponte tra carità e tecnologia. Un binomio che appare destrutturato dalle conseguenze dell’umanesimo moderno in bilico tra tecnicismo e sentimentalismo. Tutto è contrapposto e vissuto in antinomia. I media contemporanei ne sono un esempio: contenuti proposti attraverso una tesi e un’antitesi, senza quello lo spazio di mezzo, quella zona grigia che tocca a noi colorare di bellezza, di giustizia, di dignità, di verità. E di carità.
La sfida è proprio questa: riscoprici uomini. Ma non possiamo farlo pienamente, ci ricorda Asolan citando Gaudium et Spes 24, “se non attraverso un dono sincero di sé”. Che non vuol dire elemosinarsi asetticamente all’altro ma significa incontrarlo, passare del tempo con lui, sentire la sua voce, condividere momenti e argomentare qualcosa di importante.
In questo modo l’autore prova a metterci in guardia da uno dei paradossi della contemporaneità: quei surrogati che riguardano la tecnica o l’informatica ma anche tante altre categorie dell’umano snaturate dalla loro originarietà e originalità. Viviamo in una sorta di “tempo della sostituzione” dove le conquiste della modernità diventano i recinti della nostra esistenza, dove un applicazione digitale soddisfa un bisogno scrostandolo di quell’imperfezione che rimane dell’uomo e per l’uomo.
E nonostante qualcuno ci voglia individui impeccabili, consumatori consapevoli, professionisti competenti, genitori ed educatori perfetti c’è l’esempio della risurrezione a ricordarci che non è proprio così: “Un uomo – scrive Asolan – a cui fosse stato affidato il compito di inventare la storia di un risorto, avrebbe descritto un superuomo che compie atti spettacolari, che ipnotizza le folle, che solleva le montagne con un dito. Niente di tutto questo nei Vangeli. Gesù compie gli atti più semplici e meno grandiosi, sulle rive del lago cucina per i suoi discepoli, li invita a mangiare, commenta per loro le Scritture”.
Siamo noi, quindi, che scegliamo, che concepiamo la nostra vita, le nostre azioni come proiezioni della nostra vanità o del nostro orgoglio. Oppure le orniamo di autentico, di amore, di carità nella verità. Nessuno escluso. Anche quella Chiesa mater et magistra che alcuni vorrebbero esteta e patinata e che invece Francesco vede e vive come un semplice ospedale da campo dopo una battaglia, un luogo bello e imperfetto dove si curano le ferite.
Queste sette lezioni provocano e ci esortano a scendere dalla cattedra. Perché la carità non può essere raccontata da un palcoscenico ma deve essere vissuta nel mondo. Come fede incarnata nell’altro, nel povero così come nel ricco. Come evangelizzazione nel tempo della complessità. Come olio profumato che smorza il dolore. E, infine come tempo nel quale l’uomo, parafrasando Niklas Luhmann, ritorna a essere “il metro della società”, illuminato dalla luce e dall’amore di Dio.