Ormai da alcuni anni, le società occidentali attraversano una crisi profonda di identità, che viene da lontano. Per lunghi anni abbiamo costruito un mondo di sicurezza e apertura. L’avevamo costruito con fatica, dal secondo dopoguerra fino ai lunghi anni di pace, sia pure fredda, e di crescita economica che, erroneamente, era apparsa infinita. Dalla nascita dell’Europa, alla nuova frontiera, al miracolo economico, al Concilio ecumenico, alla Perestrojka, tutto sembrava un fiorire, un pullulare, di un’epoca di prosperità e di disgelo. In quel clima, perfino l’arrivo a Teheran di Khomeini ci era apparso una rivoluzione positiva. E, persino i drammi e le sconfitte, come la Primavera di Praga o il Cile di Allende, provocavano nuove sensibilità, costringevano a porci nuovi orizzonti. Sicché, abbiamo interpretato l’evento principale: la caduta del muro come l’esito inesorabile di una stagione di progresso continuo, ma, soprattutto, come una catarsi.
Ma, proprio la caduta del muro, che sprigionava libertà e democrazia, giustamente esaltati da tutti noi, prospettava nuovi problemi e nuovi squilibri, di dimensione planetaria, clamorosamente sottovalutati o esorcizzati; frutto di un’idea sbagliata di crescita globale. Se, da un lato, la globalizzazione ha il grande merito di aver sottratto alla povertà assoluta milioni di persone, ha due grandi difetti: la crescita smisurata delle disuguaglianze – tra i Paesi e all’interno di ogni Paese – e la presunzione di imporre ovunque lo stesso modello politico ed economico.
L’equivoco ha retto fino a che, l’11 settembre del 2001 (se vogliamo individuare una data simbolo), qualcosa si è spezzato: con le torri è crollato un mondo. Gli squilibri hanno logorato le certezze e a essere messi in discussione sono stati i valori e le culture. L’individualismo ha avuto la meglio sulla solidarietà, le paure sull’accoglienza, il fanatismo sulla tolleranza. Diciamolo senza mediazioni linguistiche: siamo di fronte a un fallimento. Né il liberismo, né la socialdemocrazia, che molto avevano fatto nell’epoca dello sviluppo; né la terza via, mai decollata, sono stati in grado di dare risposte convincenti ed efficaci all’emergere delle insofferenze della società civile, ricca e povera. Insofferenze aggravate dalla più lunga crisi economico-sociale, dopo quella del 1929, dalla quale si è usciti, non dimentichiamolo mai, con un New Deal, un “nuovo corso”.
Ed oggi siamo, qui, alle prese con il fenomeno populista che ci spiazza. Come si risponde, dunque, all’avanzata del populismo e all’evidente crisi del riformismo? Con una duplice mossa: prima di tutto, esplicitando, nelle nostre scelte, una proposizione più radicale – nel senso propostoci da Obama, nella frase posta in premessa a questa riflessione – dei valori di fondo del buon governo, senza la paura di andare controcorrente e, in secondo luogo, adottando una netta, più netta, prospettiva riformista nei programmi. L’obiezione di molti è che, così facendo, si perdono le elezioni. Che conviene, sia pure con qualche distinzione, cavalcare l’onda, seguire il popolo. Non sono d’accordo.
Innanzitutto perché il popolo non è tutto compatto sulle posizioni oltranziste. Anzi c’è una sostanziale suddivisione, che se non è quasi paritaria, poco ci manca, come è accaduto nel referendum inglese o nelle stesse elezioni americane (dove la Clinton perde per i delegati dei grandi Stati, ma prende, complessivamente, più voti di Trump). Secondariamente, perché mettersi, per l’appunto, “a vento”, non solo non significa catturare i voti degli “arrabbiati”, per la nota regola che l’originale è meglio della copia, ma si finisce per deprimere tutti coloro che sentono, invece, la necessità di aggregarsi su valori positivi. È quel che succede, ad esempio, dalle mie parti, in Veneto, sulle migrazioni, dove, anche sindaci democratici, per non sentirsi tagliati fuori dal sentire comune dei loro cittadini, si schierano sul no al diverso e rifiutano una semplice proposta di distribuzione equilibrata di 2,5 rifugiati ogni mille abitanti, che, per molti comuni significa addirittura ridurre la presenza attuale; ma, al tempo stesso, per non “tradire” la posizione “di sinistra”, sono troppo timidi nel parlare di sicurezza. Gravi errori di gestione, che non vanno commessi, come il caso di Cona e Bagnoli, non sono un alibi per accodarsi all’intolleranza.
Aggiungo, in più, che, proprio perché nel popolo degli scontenti c’è un pluralismo di opinioni e sentimenti e, spesso, il sostegno al populismo è dettato da fattori congiunturali, una netta posizione alternativa nei valori e solidamente riformista nei programmi, verrà, intanto, riconosciuta nella sua coerenza e costituisce, di per sé un valore di aggregazione, anche per una parte di coloro che, oggi, si affidano al vento. A condizione, però, che rispondiamo ai problemi e alle domande. I populisti danno risposte sbagliate a domande e problemi spesso veri. I riformisti devono riconoscere le domande, non metterle sotto la cenere e cercare, incessantemente cercare, le risposte giuste.
A ben vedere la sconfitta netta al referendum costituzionale di dicembre, per opera di un 60% disomogeneo e affastellato, pone gli stessi problemi. In quella maggioranza di italiani, che hanno bocciato la riforma, c’è di tutto: il no all’Europa del rigore, il no al regime fiscale, il no agli immigrati, il no perché no! Anche il 40% è disomogeneo e non automaticamente riconducibile, come taluni hanno pensato, a una prospettiva elettorale, ma, indubbiamente unito nella prospettiva riformatrice. La battaglia, dunque, è aperta e non dobbiamo dare niente per definitivo.
Proprio per questo la vittoria del no non può essere spiegata solo con la semplice personalizzazione, che pure c’è stata, della sfida elettorale da parte di Matteo Renzi. Sarebbe delegittimare, da un punto di vista politico, il risultato stesso della competizione, relegando le richieste di ascolto, che da esso provengono, nel terreno della mera contrapposizione tra tifoserie avversarie. Semmai, oltre che sui meriti, molti che non sono tuttavia bastati, una qualche riflessione sui limiti e gli errori – è naturale che ci siano – dei tre anni di governo Renzi, ci può aiutare a capire.
Forse, il limite principale della nostra esperienza di governo, non è stato quello di aver fatto poco, ma di aver fatto troppo. Di aver affastellato molte decisioni – l’elenco è davvero lungo – ma di non aver, a causa di ciò, espresso un orizzonte strategico, di aver tardato, dopo gli inevitabili strappi iniziali, a coinvolgere i vari pezzi di rappresentanza sociale che, per quanto ammaccati, sono uno snodo cruciale in un Paese molto articolato e che hanno accumulato un elevato tasso di corporativismo.
Poiché è ancora viva in noi la memoria della brusca interruzione del primo governo Prodi, dovremmo chiederci come mai si rischia di reiterare la contraddizione tra una diffusa domanda di cambiamento e riforme e una resistenza quando queste vanno al sodo dei problemi. Troppo facile la battuta che siamo tutti sostenitori delle riforme… per gli altri. Ma questo appare un punto politico di primaria importanza.