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La Francia, l’Italia e la premiata sartoria della Corte costituzionale

Di fronte ai risultati del primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, e dopo l’imbocco della strada delle elezioni anticipate in Gran Bretagna col semplice annuncio, in pratica, della prima ministra Theresa May che gli inglesi voteranno giovedì 8 giugno, mi chiedo perché mai i moderati in Italia, al netto delle arrabbiature procurate loro da chi li dovrebbe rappresentare in Parlamento, debbano essere condannati all’invidia. Sì, all’invidia.

Nel nostro caso, l’invidia è per come all’estero le regole della partita politica e istituzionale funzionino grazie alla loro semplicità e razionalità: cose che in Italia non sembrano avere diritto di cittadinanza. E non ce l’hanno sia per l’incapacità della politica di camminare al passo con i tempi, sia per la sovranità -diciamolo francamente- ch’essa anche in materia di legge elettorale ha ceduto alla magistratura. Sia pure ad una magistratura di livello superiore e atipico com’è quella della Corte Costituzionale, fatta di cinque toghe vere e proprie e di  dieci consiglieri “laici”, in quanto nominati per metà dal presidente della Repubblica ed eletti per l’altra metà dalle Camere in seduta congiunta, e con criteri inevitabilmente politici. Che tali rimangono per la natura di chi li deve pur scegliere, secondo l’articolo 135 della Costituzione, “fra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria ed amministrativa, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni di esercizio”. Anni, peraltro, che non sempre sono stati valutati con criteri unanimemente condivisi, visto che furono contestati, per esempio, quelli attribuiti a Fernanda Contri, giudice costituzionale dal 1996 al 2005 e infine anche vice presidente.

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Ebbene, questa nostra Corte Costituzionale, che taluni esperti ritengono addirittura un modello a livello mondiale, prima ha permesso, con una interpretazione alquanto estensiva dell’articolo 75 sul carattere anche “parziale” di un’abrogazione, che le leggi elettorali venissero manipolate dagli elettori con i referendum. Ai cui promotori è stato consentito, in particolare, di predisporre quesiti, comprensibili solo agli addetti alla materia, in cui certe norme venivano tagliate e cucite, fra parole soppresse e virgole spostate: il tutto studiato apposta non per abolire ma per modificare la legge per l’elezione del Senato, o della Camera, o di entrambe.

Poi, evidentemente non contenta di questo, la stessa Corte si è arrogato il diritto, su ricorso della magistratura ordinaria, di intervenire anch’essa sulle leggi elettorali col metodo del taglia e cuci, per cui la Consulta, come si chiama il Palazzo dove lavorano i giudici costituzionali, è diventata una sartoria elettorale. Dove nei mesi scorsi, per esempio, è stato tagliato dal cosiddetto Italicum, non ancora applicato peraltro all’elezione della Camera, il ballottaggio. Che è il sistema grazie al quale fra meno di quindici giorni, domenica 7 maggio, i francesi potranno eleggere -beati loro- il presidente della Repubblica scegliendo fra i due più votati nel primo turno del 23 aprile: Emmanuel Macron e Marine Le Pen, distanziati di soli due punti.

Da noi il ballottaggio, pur felicemente sperimentato a livello locale con l’elezione dei sindaci, è stato precluso dagli illustrissimi giudici della Corte Costituzionale a livello nazionale.

Sì, lo so, il mio buon amico Giuliano Amato, giudice della Consulta, noto anche come “dottor Sottile” per la sua coscienza e conoscenza, e per la finezza con la quale sa mostrare l’una e l’altra, scelto proprio per questo dal compianto Bettino Craxi come principale collaboratore nei quattro anni del suo governo, in veste di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha spiegato che la Corte non ha bocciato il ballottaggio in sé, ma solo quello previsto dal benedetto o maledetto Italicum. Per cui basterebbe che il Parlamento, in quel poco ormai che resta della legislatura in corso, approvasse una nuova legge con un ballottaggio diversamente prescritto, con soglie di accesso ben o meglio definite, ed equilibrate, per potervi ricorrere già alle prossime elezioni.

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Dice bene -ripeto- il mio buon amico Giuliano. Eppure lui è stato due volte presidente del Consiglio e più volte ministro, dopo l’esperienza di sottosegretario con Craxi. Pertanto sa bene, anzi benissimo, che né queste Camere ormai moribonde né probabilmente quelle successive, destinate a segnare il sostanziale ritorno al sistema elettorale proporzionale proprio dopo l’intervento della Corte Costituzionale prima sul cosiddetto Porcellum e poi sull’Italicum, non avranno mai la forza e la voglia di concedere agli italiani il ballottaggio nazionale, il presidenzialismo e qualsiasi altra forma di sistema istituzionale o legge elettorale improntati alla semplicità, alla logica e alla rapidità. Noi in questo dobbiamo continuare, come dicevo all’inizio, a invidiare gli altri.

D’altronde, quelle volte in cui si è riusciti in Parlamento, con la complicata procedura della doppia lettura, a varare riforme costituzionali -nel 2005 con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi e l’anno scorso con Matteo Renzi, entrambi ostinatisi a volerle approvare a maggioranza assoluta, e non con i due terzi dei voti che avrebbero evitato il passaggio referendario- gli elettori non ne hanno voluto sapere. Cioè, noi non ne abbiamo voluto sapere, per cui sarebbe forse anche il caso di dire che ce lo siamo cercato e ce lo meritiamo il sentiment d’invidia che proviamo nei riguardi dei francesi e, per altro verso, degli inglesi.

Debbo aggiungere, paradossalmente, che proprio sotto l’aspetto di quella che considero la perniciosa invadenza della Corte Costituzionale in materia elettorale, sono contento che la riforma della Costituzione targata Renzi sia stata bocciata nel referendum del 4 dicembre. Fra i suoi inconvenienti c’era il divieto di applicazione di una nuova legge elettorale senza il preventivo giudizio, cioè assenso, dei giudici costituzionali. Ai quali, a quel punto, non restava solo che trasferirsi nel dirimpettaio Palazzo del Quirinale e sostituirsi collegialmente, al capo dello Stato, magari a turno, come si sono  già abituati a fare con i loro presidenti scegliendo quello più vicino alla scadenza. Una prospettiva, formale o sostanziale che fosse, semplicemente da pazzi.


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