Riduzione orizzontale delle ore giornaliere. Riduzione verticale delle giornate lavorate, ad esempio la settimana corta di 4 giorni. O un modello nuovo di organizzazione dell’orario ordinario, ad esempio una fascia ampia che vada dalle 25 alle 35 ore. Sono i tre modelli di riduzione degli orari di lavoro sui quali nei prossimi giorni gli iscritti al Movimento 5 Stelle voteranno.
La domanda che sarà posta sulla piattaforma Rousseau, come si legge in un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo (in fondo il testo integrale) nell’ambito del programma Lavoro in fieri, è la seguente: “Con quali modalità ritieni prioritario agire per ridurre l’orario di lavoro?”.
Ma la direzione di marcia per il Movimento fondato da Grillo e Gianroberto Casaleggio è segnata, come si evince dal post introduttivo al programma Lavoro in fieri dei Pentastellati. Nel post firmato giorni fa da tre parlamentari dei Cinque Stelle in cui annunciavano le tesi che si stanno susseguendo, si sintetizzava con lo slogan “lavorare meno lavorare tutti” uno dei punti fondamentali del programma con echi bertinottiani alle 35 ore.
Non era solo uno slogan. Infatti in un post firmato dall’attivista sindacale Marco Craviolatti e pubblicato sul blog delle Stelle e di Beppe Grillo si legge: “”Lavorare meno lavorare tutti” non è quindi uno slogan o un auspicio, è una constatazione della realtà, una correlazione statistica. Facciamo un’altra fotografia in movimento: gli orari di lavoro medi in tutti i Paesi cosiddetti avanzati sono in costante diminuzione da decenni, a ritmi diversi, dalla Germania all’Italia, dal Giappone alla Corea. Quindi la riduzione degli orari è un dato di fatto, è già in corso! Ma allora perché non ce ne accorgiamo, perché non stiamo tutti meglio? Perché è una media statistica del pollo: da una parte alcuni sono costretti a lavorare sempre di più, dall’altra, altri non possono lavorare quanto vorrebbero”.
Dopo una dissertazione, piuttosto opinabile e dalle fonti non indicate su quello che avviene in altri Paesi, e un elogio dell’esperimento francese delle 35 ore in verità superato pure in Francia, il post di Craviolatti (autore di un libro edito da Ediesse con prefazione di Stefano Fassina) si chiude indicano tre possibili strade per realizzazione lo slogan suddetto. Ecco le tre strade: “Rispetto a quella che è invece la riduzione collettiva degli orari le strade sono molteplici: ad esempio una riduzione orizzontale in cui le ore giornaliere vengono ridotte, o una riduzione verticale delle giornate lavorate, ad esempio la settimana corta di 4 giorni; oppure un modello nuovo di organizzazione dell’orario ordinario, ad esempio una fascia ampia che vada dalle 25 alle 35 ore. Questa fascia potrebbe essere lasciata poi alla contrattazione e alla libera organizzazione delle imprese, per garantire sia la necessaria riduzione che i margini di flessibilità, adattandoli ai diversi contesti lavorativi”.
GLI ULTIMI APPROFONDIMENTI DI FORMICHE.NET SUL PROGRAMMA LAVORO IN FIERI DEI 5 STELLE:
ECCO DI SEGUITO IL POST INTEGRALE:
Oggi discutiamo il quinto punto del #ProgrammaLavoro del MoVimento 5 Stelle. Il quesito che troverai nella votazione della settimana prossima sarà: Con quali modalità ritieni prioritario agire per ridurre l’orario di lavoro?
di Marco Craviolatti – Attivista Sindacale
Con quali modalità possiamo agire per ridurre l’orario di lavoro?
Partiamo da una fotografia della realtà: i Paesi europei in cui si lavora di meno sono i Paesi ricchi del Nord, come Germania, Danimarca, Olanda. I Paesi europei in cui si lavora di più sono i Paesi dell’Est e del Sud, Polonia, Grecia… Un lavoratore greco lavora il 50% in più di un lavoratore tedesco: nella realtà le “cicale” sono ricche, e le “formiche” sono povere.
Nei Paesi ricchi il tasso di occupazione è molto più elevato, e si lavora di meno. In Italia abbiamo il 57% di occupati, in Francia il 64%, sono in proporzione 3 milioni in più. “Lavorare meno lavorare tutti” non è quindi uno slogan o un auspicio, è una constatazione della realtà, una correlazione statistica. Facciamo un’altra fotografia in movimento: gli orari di lavoro medi in tutti i Paesi cosiddetti avanzati sono in costante diminuzione da decenni, a ritmi diversi, dalla Germania all’Italia, dal Giappone alla Corea. Quindi la riduzione degli orari è un dato di fatto, è già in corso!
Ma allora perché non ce ne accorgiamo, perché non stiamo tutti meglio? Perché è una media statistica del pollo: da una parte alcuni sono costretti a lavorare sempre di più, dall’altra, altri non possono lavorare quanto vorrebbero.
E poi, da una parte ci sono orari contrattuali che aumentano, straordinari obbligatori, taglio dei riposi; dall’altra i part time involontari che ormai sono due terzi del totale, i contratti usa e getta, la gig economy. Quindi è chiaro che gli orari si riducono da sé, come abbiamo visto, ed i motivi sono anche intuibili: l’evoluzione tecnologica che sostituisce -fortunatamente- il bisogno di lavoro umano. Più che ridurre gli orari in modo generico dobbiamo quindi pensare a come distribuirli bene, e quindi come far lavorare meno quelli che lavorano tanto e come far lavorare di più quelli che lavorano poco.
I costi per lo Stato, per avviare la riduzione degli orari di lavoro, sono in genere molto limitati. In Francia le 35 ore sono costate circa un miliardo l’anno, mentre in Italia stiamo spendendo -per la decontribuzione dei neoassunti col jobact- ben 20 miliardi in tre anni, con ricadute occupazionali nulle, tra le peggiori in tutta Europa. Si può ad esempio spostare il carico fiscale e contributivo penalizzando gli orari lunghi e gli straordinari a favore della riduzione degli orari. Però rispetto ai costi dobbiamo assumere una prospettiva anche storica di lungo termine: le 8 ore in Italia sono state introdotte nel 1919, è passato un secolo; le 40 ore nel 1969, mezzo secolo da quando il sabato è diventato festivo; da allora la produttività del lavoro è aumentata enormemente, pensiamo che i computer dell’Apollo 13 erano meno potenti di una chiavetta USB di oggi. Quindi possiamo immaginare quale sia stato il progresso tecnologico. Questo cosa vuol dire? Che la produttività aumenta, e in un’ora di lavoro si produce molta più ricchezza. Ma se per un po’ di anni i salari sono aumentati, adesso da tanto sono fermi e stagnano, gli orari di lavoro sono rimasti fermi.
Ma se si produce più ricchezza, i salari sono gli stessi, e gli orari sono gli stessi, allora dove finisce quella ricchezza supplementare? Finisce nelle tasche di pochissimi investitori e azionisti, di quell’1% o 10% di privilegiati che concentrano la ricchezza mondiale. Ridurre gli orari significa allora riappropriarsi di quei benefici, del progresso scientifico e tecnologico che in questo momento va ad alimentare solo i profitti di pochi.
Avere tanto lavoro che costa poco per le imprese a prima vista sembra un vantaggio competitivo, ma è una logica di breve durata. Perché le imprese in tal modo galleggiano, fanno profitti, non sono motivate a investire e innovare, e nel giro di poco i prodotti e le tecnologie utilizzate diventano obsolete, la produttività si ferma, il valore prodotto non cresce più: e questo è il grosso problema dell’Italia, chiamata “la malata d’Europa” perché la produttività del lavoro è ferma da 15 anni mentre cresce in tutti gli altri Paesi europei. A quel punto non serve più dire al lavoratore di pedalare più veloce e più a lungo, a quel punto bisogna cambiare la bicicletta: cambiare le gomme, oliarla, magari montare un motore elettrico, con cui lo stesso lavoratore può pedalare facendo molta più strada con molta meno fatica.
Ridurre gli orari incentiva questo: ridurre gli orari è un po’ come portare la bicicletta in officina, fare una revisione di tutta l’organizzazione del lavoro, stimolare gli investimenti, l’innovazione produttiva, e quindi l’evoluzione del sistema produttivo nazionale verso uno stadio un po’ più evoluto. La riduzione degli orari va organizzata pensando sia al piano individuale sia a quello collettivo. Intanto ci sono tantissime persone che lavorerebbero di meno anche guadagnando di meno se solo potessero farlo, penso ad esempio ad alcuni periodi della vita come la maternità, la malattia, l’età avanzata. Bisogna dare a queste persone la possibilità di farlo, ad esempio introducendo un diritto al part time: i part time oggi in gran parte sono imposti, ma chi li vorrebbe spesso non può accedervi. Si potrebbe istituire un diritto al part-time, magari lungo di 30 o 35 ore, che non può essere negato a meno di problemi organizzativi insormontabili. Ci sono poi i congedi di cura che vanno potenziati e meglio retribuiti, come i congedi parentali che oggi vengono retribuiti solo al 30%, quindi rimangono spesso diritti sulla carta, mentre le raccomandazioni europee suggeriscono di portare la retribuzione almeno al 60% per farli fruire anche agli uomini.
Rispetto a quella che è invece la riduzione collettiva degli orari le strade sono molteplici: ad esempio una riduzione orizzontale in cui le ore giornaliere vengono ridotte, o una riduzione verticale delle giornate lavorate, ad esempio la settimana corta di 4 giorni; oppure un modello nuovo di organizzazione dell’orario ordinario, ad esempio una fascia ampia che vada dalle 25 alle 35 ore. Questa fascia potrebbe essere lasciata poi alla contrattazione e alla libera organizzazione delle imprese, per garantire sia la necessaria riduzione che i margini di flessibilità, adattandoli ai diversi contesti lavorativi.
A un secolo dal 1919 e a mezzo secolo del 1969, cioè dai grandi salti della storia dell’orario di lavoro, la struttura economica è pronta a un salto nuovo e ambizioso: il 2019 potrebbe rappresentare una scadenza simbolica molto motivante. E poi abbiamo la responsabilità, l’onore, e l’onere di avere a che fare con la più grande risorsa che esista sulla faccia della terra, la risorsa più preziosa e più democratica: il tempo di vita delle persone.