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Iniziano le trattative per la Brexit: cosa vogliono i 27?

Con la lettera firmata da Theresa May il 29 marzo, il processo che porterà alla Brexit è ufficialmente cominciato. Mentre il Regno Unito affronta i suoi problemi interni (rapporti con Scozia ed Irlanda del Nord, instabilità economica), i 27 paesi membri rimanenti si apprestano ad affrontare un difficile periodo di trattative: andare verso una Hard-Brexit rischiando il nulla di fatto, o cercare un difficile compromesso con il rischio che metta in crisi la coesione dell’Unione?

Questo il dilemma che accompagnerà le trattative per i prossimi due anni.

L’obiettivo principale della Gran Bretagna è di ottenere uno “Special Deal”, sulla falsariga di quanto attualmente in atto per Norvegia, Svizzera e Canada, che permetta al paese di mantenere un qualche tipo di accesso al mercato unico senza pagarne, però, gli oneri. Un obiettivo che, però, rischia di scontrarsi con le volontà dei 27, come enunciato dal Capo Negoziatore per l’Unione Europea, l’ex Commissario Michael Barnier. Nella relazione presentata al Parlamento Europeo, Barnier ha sottolineato che in nessun modo la trattativa con il Regno Unito deve mettere in discussione i vantaggi dei membri effettivi della UE. Secondo questo principio, risulta quindi difficile scindere la partecipazione al Mercato Comune dal’unione doganale, dalla libera circolazione delle persone e dalla partecipazione anche parziale al budget comunitario – punti che Londra considera secondari.

“In nessun modo la trattativa con il Regno Unito deve mettere in discussione i vantaggi dei membri effettivi dei 27 paesi della UE”

Il nodo del budget.  Nel’accordo firmato nel 2014, prima del referendum sulla Brexit, sottoscritto anche dall’allora Primo Ministro David Cameron, la Gran Bretagna si è impegnata a contribuire al budget europeo per una cifra di circa 17 miliardi di Euro da versare annualmente fino al 2020. In maniera molto chiara, i cosiddetti “Hard-Brexiters” britannici si sono detti contrari a pagare tale quota una volta usciti dall’Unione nel 2019, l’esatto opposto di quanto desiderano le controparti europee. I grandi contribuenti europei – Francia, Germania e Italia – vorrebbero infatti evitare di sopperire alle mancanze britanniche pagando di tasca propria. Paesi Baltici, Portogallo e paesi dell’Est l’obiettivo sarebbe evitare tagli ai fondi europei per lo sviluppo, di cui sono i principali beneficiari. Nei fatti, nessuno ha intenzione di pagare al posto di Londra e le posizioni dei 27 paesi membri si differenziano sui diversi modi in cui questo si possa evitare.

Francia e Germania per la Hard Brexit. Partendo proprio dal pagamento del budget europeo, Francia e Germania si caratterizzano come capofila della cosiddetta Hard-Brexit. Sia per Parigi che Berlino, infatti, Londra deve mantenere gli impegni contratti prima del referendum, con la Germania pronta a portare la Gran Bretagna alla Corte Internazionale dell’Aia. Per la Germania in particolare, non è ammissibile decidere di uscire dall’Unione e poi mettersi a scegliere cosa tenere e a cosa rinunciare, posizione peraltro condivisa dalla stessa Commissione Europea. Accettare che a Brexit avvenuta la Gran Bretagna possa avere un accesso “speciale” al Mercato Unico non solo andrebbe contro le regole dell’Unione, ma inviterebbe altri paesi a seguirne le orme sancendo la fine stessa dell’UE. Simile la posizione francese, che teme una competizione commerciale non regolamentata e intende salvaguardare il più possibile l’industria europea.

“Non è ammissibile decidere di uscire dall’Unione e poi mettersi a scegliere cosa tenere e a cosa rinunciare”

Gli altri “Hard-Brexiters” europei. Accanto a Germania e Francia si schierano – a malincuore – due tradizionali alleati del Regno Unito, ovvero Finlandia ed Olanda. Entrambi i paesi sono diffidenti verso il cosiddetto “special deal” e pongono la salvaguardia dell’Unione e del budget europeo come priorità, nonostante la posizione olandese sia leggermente più sfumata per via dei grandi interessi commerciali del paese in Gran Bretagna. Simile come sfumature, ma diversa negli obiettivi la posizione della Croazia, fortemente interessata a non rompere completamente con la Gran Bretagna soprattutto sul tema della sicurezza.

Il caso polacco. In quel Risiko che è l’Europa alle prese con la Brexit, i Britannici hanno considerato a lungo la Polonia come loro principale alleato nelle trattative. Il governo polacco è considerato euro-scettico, oltre 800.000 polacchi risiedono nel Regno Unito e Londra è uno dei principali partner militari di Varsavia di fronte alla Russia. Ciononostante la Polonia sembra non aver intenzione di rompere i ranghi dei 27 ed anzi si è schierata sulla linea franco-tedesca: troppo importanti sono i fondi europei per lo sviluppo per l’economia polacca. Motivazioni simili hanno anche Bulgaria e Slovenia, altri due militanti del fronte degli Hard-Brexiters.

I nuovi poli finanziari. Meno interessati al budget, ma più alle implicazioni finanziarie di una Londra libera dalle regolamentazioni europee sono il Lussemburgo e Malta. Il Granducato punta a diventare il nuovo polo finanziario europeo e non a caso molte compagnie finanziarie inglesi hanno già annunciato che apriranno i propri uffici europei proprio in Lussemburgo. Simili le aspirazioni della piccola Malta che vede nella Brexit un modo per potenziare il proprio status di polo finanziario mediterraneo per i britannici, favoriti dalla lingua – l’Inglese è una delle lingue ufficiali del paese – e dal clima.

“Salvaguardare l’Unione Europea a qualunque costo”

Riformare e salvare l’Unione. Su posizioni vicine ma distinte dal fronte franco-tedesco si pone l’Austria. Il governo viennese assumerà il ruolo di presidente di turno del Consiglio Europeo per il secondo semestre del 2018 coprendo la fase finale delle trattative. L’Austria è particolarmente ferrea sul budget ed è preoccupata – come molti altri paesi – dei diritti dei circa 25.000 cittadini austriaci residenti nel Regno Unito. In particolare il governo austriaco vuole usare le trattative della Brexit per riformare l’Unione. Una posizione simile ha la Svezia, il cui obiettivo è di salvaguardare l’Unione Europea a qualunque costo.

“Evitare il riaccendersi del conflitto in Irlanda del Nord ormai sopito”

Il problema dell’Irlanda. L‘Irlanda si trova nella scomoda posizione di essere un diretto interessato alla Brexit, pur non avendola decisa. Come spiegato da Dara Murphy, Ministro degli Affari Europeo della Repubblica d’Irlanda, “non possiamo avere una situazione in cui persone sulla nostra isola, potenziali cittadini irlandesi, subiscano delle decisioni prese in Regno Unito”. Per questo Dublino intende fare tutto il possibile per preservare la libera circolazione delle persone fra la Repubblica e l’Irlanda del Nord. Il tema è molto delicato in quanto, secondo gli accordi fra Irlanda e Regno Unito, ogni cittadino dell’Irlanda del Nord può, volendo, optare per la doppia cittadinanza britannica ed irlandese. Per questo motivo c’è da aspettarsi che proprio l’Irlanda sia il maggiore sponsor di una soluzione “soft”.

L’Italia e la “Soft Brexit”. L’Italia ha assunto nei fatti il ruolo di capofila della cosiddetta soft-Brexit, ovvero di un compromesso fra posizioni europee e britanniche, magari adottando un modello norvegese, in cui i britannici continuerebbero a contribuire al budget europeo. Fulcro della posizione italiana è di scindere le trattative sul divorzio – budget europeo e diritti dei cittadini italiani nel Regno Unito – da quelle sugli accordi commerciali in modo da non operare ricatti verso la Gran Bretagna o rischiare il “no-deal”: la Brexit senza accordo. Punto dirimente per l’Italia sarebbe la regolamentazione dei servizi finanziari per evitare ripercussioni sulla borsa milanese, tra l’altro legata a quella di Londra. Sempre Milano, nei piani del governo italiano, sarebbe la città candidata ad essere sede delle agenzie europee attualmente con sede a Londra.

Il Belgio con l’Italia. Uno dei principali alleati dell’Italia è il Belgio, il cui primo ministro Charles Michel punta alla “Smart Brexit” per salvaguardare l’export verso il Regno Unito, che rappresenta il quarto partner commerciale del paese e che assorbe l’80% delle esportazioni provenienti dalla regione fiamminga del paese. Bruxelles è inoltre interessata a mantenere stretti rapporti di cooperazione con il Regno Unito sull’anti-terrorismo. Verso la via italo-belga sembrano indirizzarsi Cipro, una delle principali mete turistiche dei britannici, e l’Ungheria, il cui governo intende limitare le ricadute economiche causate dall’uscita del Regno Unito dall’Unione, ma senza “punire” Londra.

“Mantenere stretti rapporti di cooperazione con il Regno Unito sull’anti-terrorismo”

Sicurezza e fondi europei. Il tema della sicurezza è molto forte per i tre paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, molto attenti inoltre ai diritti dei propri cittadini presenti in Gran Bretagna, fra cui 200.000 lituani, l’8% della popolazione del paese. I tre paesi sono inoltre forti beneficiari dei fondi per lo sviluppo europeo e propenderebbero verso la soft-brexit per arginare i danni alle proprie economie. Simili sono le posizioni della Romania, dalla Slovacchia e dal Portogallo.

La Spagna. Vicina alla posizione Belga, ma per altri motivi, è la Spagna. Il paese ospita 200.000 cittadini britannici, quasi tutti pensionati, che rappresentano una fetta non marginale dell’economia del paese. Brexit è considerata un “rischio” per il paese, soprattutto dal punto di vista turistico ed economico. Molte delle maggiori compagnie spagnole – soprattutto Telefonica e Banco de Santander – hanno infatti forti interessi nel mercato britannico il che rende essenziale, per il governo spagnolo di Mariano Rajoy, un accordo favorevole al mantenimento della Gran Bretagna nel Mercato Comune. Fondamentale per la Spagna anche il futuro status di Gibilterra, la cui economia funge da volano per la regione più meridionale della Spagna.

Gli altri. Mentre la Grecia non ha preso una posizione ufficiale, altri paesi hanno adottato posizioni “eccentriche”. La Repubblica Ceca, come l’Italia, è intenzionata a separare la trattativa sugli accordi commerciali da quella sul divorzio, ma non esclude la possibilità – sostenuta dal Ministro per l’Interno Milan Chovanec – di rompere i ranghi dell’Unione e avviare una trattativa bilaterale con Londra. La Danimarca, contrariamente al resto del “blocco nordico” è invece più propensa verso una Brexit leggera che salvaguardi la competitività delle merci danesi nel mercato europeo.

Fra Smart, Soft e Hard, il problema dell’Unione Europea è un altro: trovare un posizione comune.

Come andrà lo si saprà solo fra 18 mesi.

Pubblicato originariamente dall’autore su: il Caffè e l’Opinione



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