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Come si muove l’Italia sulla riforma Ue dei dazi antidumping

Carlo Calenda

E ora che succede? Il governo italiano ha deciso di bloccare la revisione del sistema di dazi antidumping avanzata dalla Commissione Europea, giudicata troppo debole per contrastare la “prepotenza” cinese che continua nella sua politica predatoria a danneggiare diversi settori del made in Italy. Per la prima volta arriva una netta presa di posizione nella politica commerciale all’ipotesi di compromesso che aveva messo a punto, non senza difficoltà, l’attuale presidenza maltese.
“La linea di politica commerciale seguita dal governo italiano è sempre stata chiara e coerente”, ha sottolineato il ministro dello Sviluppo economico, titolare del dossier, Carlo Calenda. “Da parte nostra – ha spiegato – diamo massimo supporto alla liberalizzazione del commercio internazionale anche attraverso la conclusione degli accordi di libero scambio, ma allo stesso tempo massima intransigenza nella difesa da comportamenti commerciali scorretti nella convinzione che il commercio, per essere motore di crescita, deve essere equo e rispettoso delle regole”. Ciò che non va nella formula del “silenzio-assenso” che riformerebbe la procedura delle misure antidumping per il nostro governo e anche per le maggiori associazioni di categoria, a partire dalla Confindustria, è che si aprirebbe di fatto al riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina.

Bruxelles per aggirare la questione della concessione o meno ha proposto un sistema ‘neutrale’ non più basato su black list di Paesi ma sulla possibilità di applicare dazi antidumping in quei settori in cui si riscontrassero squilibri gravi e sovraccapacità produttiva, come è il caso per esempio dell’acciaio. L’Italia, sin dal principio, si è opposta a questa soluzione in quanto ritenuta inefficiente e poco sicura dal punto di vista giuridico, segnalando la sua contrarietà anche all’ultimo Consiglio europeo del commercio estero lo scorso novembre sotto presidenza slovacca. Anche perché tra gli aspetti più scottanti oggi c’è l’inversione dell’onere della prova. Che fino ad oggi (e anche in futuro secondo il protocollo di adesione della Cina al Wto) era a carico dei produttori cinesi, mentre – secondo la proposta della Commissione – passa in capo all’industria europea che, nella fase di denuncia, dovrà provare l’esistenza di distorsioni facendo riferimento a una serie di elementi internazionali difficile da provare.

Solo che adesso l’Italia, con una presa di pozione formale, ha comunicato alla presidenza maltese di essere insoddisfatta del testo, chiedendo di migliorarlo sensibilmente. Cosa succede adesso? Gli scenari possibili sono almeno due, spiega a Formiche.net un addetto ai lavori La prima è che nonostante “la voce grossa” tutto resti così come è anche perché la posizione italiana appare, almeno per il momento, isolata in Europa. Questo ovviamente sarebbe lo scenario più nefasto e che viene comunque stigmatizzato anche perché il governo in questo braccio di ferro intrapreso con Bruxelles pensa di non condurre una battaglia contro i mulini al vento. Al contrario è una posizione ferma, sostenuta in passato anche dall’ex premier Matteo Renzi che vorrebbe un’Europa più vicina alle esigenze della manifattura e delle imprese, piuttosto che piegata a meri interessi politici con Pechino e le economie emergenti. Posizione che l’ex presidente del Consiglio ha ribadito anche in una recente enews dove non a caso ha annunciato di voler chiudere la sua campagna per le primarie del Partito Democratico proprio a Bruxelles. Perché così come bisogna puntare ad una politica che non guardi solo all’austerità ma alla crescita e allo sviluppo, allo stesso tempo non si possono abbassare le difese commerciali sacrificando sull’altare l’industria italiana ed europea.

“Da soli non possiamo farcela. Si decide sempre a maggioranza qualificata e per questo speriamo che qualche altro stato ci segua”, dice una fonte ministeriale. E questo è il secondo scenario possibile. Il governo italiano che fa da apripista, uscendo di fatto in avanscoperta, sperando di poter tirare dentro altri paesi. Ma chi? Apparentemente potrebbero virare sulla posizione italiana quei paesi che ancora oggi possiedono un’industria manifatturiera forte, come la Francia ad esempio (ma le elezioni politiche non aiutano e bisogna vedere chi vincerà le presidenziali) o anche la Germania che sul dossier ha sempre avuto una posizione ambigua anche perché non vuole di certo rovinarsi i rapporti con Pechino, che potrebbe spostare diversi consensi come quello dell’Austria e del blocco dei paesi dell’Europa Centrale. Ci sono poi una serie di paesi come la Spagna, la Polonia e la Romania attente a queste tematiche ma anche loro non escono, di fatto, allo scoperto.

La prima conta si farà probabilmente al Coreper di mercoledì, ovvero la riunione del 26 aprile, a livello di ambasciatori che sarà una sorta di antipasto di quello che poi accadrà l’11 maggio, a livello di ministri delegati. Per questo si continua a lavorare: sia a livello tecnico che a livello politico e si confida anche nel ruolo del Parlamento europeo, dove la posizione italiana potrebbe fare più breccia e consentire di portare a casa una versione del nuovo regolamento più vicina agli interessi della nostra industria. Tutto questo perché in base al processo di codecisione previsto dal trattato di Lisbona, ci dovrà essere anche l’approvazione da parte di Strasburgo. “La proposta della Commissione, anche in questa versione di compromesso, è debole e di difficile implementazione e rischia di lasciare l’industria europea indifesa verso i comportamenti scorretti”, ha rimarcato il ministro Calenda, ritenendo quindi “fondamentale che nel prosieguo dell’iter normativo questa proposta venga sostanzialmente migliorata”.

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