A Pasqua, in tutte le chiese del mondo, i cristiani ogni anno fanno memoriale del fatto che duemila anni fa ha cambiato per sempre il corso della storia. Il fatto, ovviamente, è la risurrezione di Cristo, senza la quale non vi sarebbero nè cristianesimo nè chiesa. Che la resurrezione sia “la” questione, il punto su cui tutto sta o cade, è oltremodo sottolineato da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: “Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede.
Noi, poi, risultiamo, falsi testimoni di Dio, perchè contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo” (1Cor 15, 14s). Senza la resurrezione, scrive nel terzo volume del suo “Gesù di Nazareth” Benedetto XVI, “si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo – , ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; una personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Egli non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi”.
Quest’ultimo passaggio è particolarmente illuminante. Perché dà la misura esatta di quella che da sempre, ma forse oggi in modo più drammatico che in altre epoche, è la questione più importante nella e per la chiesa (altro che la comunione ai divorziati risposati o il celibato dei preti o le donne diacono), ovvero se e in che misura il popolo di Dio – nella sua più vasta accezione – ponga o no al centro della propria vita la fede nella risurrezione. E a guardare alla storia ecclesiale degli ultimi decenni, la situazione è a dir poco sconfortante. Non è certo un caso se lo stesso Benedetto XVI nel libro-intervista “Ultime conversazioni”, ha ribadito come il cuore del problema sia proprio la fede. O meglio, il fatto che nella società occidentale ormai da oltre mezzo secolo è in atto una profonda crisi di fede, che S.Giovanni Paolo II stigmatizzò con due parole precise: “apostasia silenziosa”. Crisi di fede che se per un verso investe tutta intera la dottrina cattolica, per altro è fuor di dubbio come tale fenomeno sia primariamente il riflesso di una crisi più profonda che tocca i fondamenti stessi della fede, in primis la risurrezione di Cristo. Di cui, appunto, si parla sempre meno. Non soltanto nelle facoltà di teologia, in alcuni casi vere fucine di razionalismo teologico più pernicioso dell’ateismo; ma anche nei dibattiti, convegni, seminari di teologia pastorale o di cultura cattolica in generale, dove puntualmente della resurrezione non c’è traccia.
Per non parlare di certa omiletica – si va dal comizio camuffato alla declinazione in chiave sindacale del vangelo; dall’invettiva apocalittica e moralistica al bel discorso tutto infarcito di citazioni colte; dall’intrattenimento dell’assemblea stile “showman” alla noiosissima e inutile lezione di teologia – che se possibile la fede te la toglie. Le cause che spiegano la crisi attuale sono note, e tutte riconducibili a quella cesura storica che l’allora giovane professore di teologia Joseph Ratzinger aveva profeticamente intravisto quando era ancora agli inizi, ovvero sul finire degli anni ’60. I cambiamenti epocali di quel periodo – contestazione studentesca, rivoluzione sessuale e dei costumi, ingresso massiccio dei mass media nella vita quotidiana, lotte politiche e di emancipazione e, non ultima, una lettura del Vaticano II da parte di certi ambienti ecclesiali che ha di fatto favorito un processo di “mondanizzazione” della chiesa spacciata per modernizzazione, ecc. – avrebbero comportato per la chiesa l’inizio di un tempo di crisi e di prova, che da un lato ne avrebbe drasticamente ridimensionato l’influenza, il prestigio e la presenza, anche numerica, nella società fino a diventare, come in effetti è avvenuto, minoranza; dall’altro, e allo stesso tempo, la progressiva affermazione di una società compiutamente post-cristiana avrebbe rappresentato l’opportunità di riscoprire l’essenziale: “Dalla crisi odierna – disse il futuro Pontefice il 25 dicembre del 1969 nell’ultimo di cinque discorsi radiofonici – emergerà una Chiesa che avrà perso molto…dovrà ripartire più o meno dagli inizi… Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica…io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico…la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.
Ciò che Ratzinger aveva intravisto con estrema lucidità, si è puntualmente verificato. E sarebbe oltremodo miope, di fronte ad una crisi di fede che ha raggiunto ormai proporzioni drammatiche in Europa e non solo, non rendersi conto di come oggi più che mai ci sia bisogno di ri-evangelizzare la società piuttosto che pensare a soluzioni rabberciate o elaborare l’ennesimo e inutile piano pastorale. D’altra parte, che la riscoperta della fede sia (o dovrebbe essere) il banco di prova su cui si gioca il futuro stesso della chiesa è testimoniato dalla troppo spesso dimenticata domanda di Gesù: “Quando il Figlio dell’Uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?” Non una società più giusta, un mondo pacificato e solidale, l’umanità finalmente emancipata dalla sofferenza e dal dolore, un eco-sistema più salubre, ecc. Ma, appunto, la fede. È da qui che bisogna ripartire, tornando all’essenziale. E l’essenziale è l’annuncio della morte e resurrezione di Cristo. Declinato come si vuole, ma senza il quale il cristianesimo non ha neanche motivo di esistere. In questo contesto la celebrazione della Pasqua riveste un’importanza decisiva (lex orandi lex credendi). Essa affonda le sue radici nella storia di Israele, in particolare nella storia dell’esodo, ed ha un significato profondamente esistenziale e concreto (ma niente affatto politico come sostiene qualche corrente teologica), perché indica la liberazione, il passaggio dalla schiavitù alla libertà. Anche la Pasqua cristiana esprime questa realtà.
La risurrezione è un evento di liberazione: dalle catene della morte, prima, e dalla schiavitù del peccato, di conseguenza. E nonostante le mancanze e le debolezze di noi uomini, ogni anno Dio continua a “passare” in mezzo al suo popolo. E come la croce è l’asse portante dell’universo – stat crux dum volvitur orbis recita il motto dei certosini di S.Bruno – così la resurrezione è la luce che illumina ogni sofferenza umana, di ogni uomo in ogni luogo. Per questo da tempo immemorabile i cristiani celebrano il memoriale della morte e resurrezione di Cristo come un nuovo Esodo, nell’attesa che Dio passi ancora in mezzo a loro, salvandoli. Questo è il senso profondo del Mistero Pasquale, ben riassunto nel magnifico inno dell’Exultet che apre la solenne liturgia della Veglia pasquale, “la veglia madre di tutte le veglie”, per usare una felicissima espressione di S. Agostino: “Questa è la notte in cui Cristo, spezzando i vincoli della morte, risorge vincitore dal sepolcro…O notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore!”.