Le armi chimiche tornano alla ribalta. Dopo la strage di ribelli e civili, in Siria, gli Stati Uniti di Donald Trump hanno reagito bombardando il regime di Assad.
L’impiego delle armi chimiche in combattimento è un’opzione militare oggetto di discussione sin dal tardo XIX Secolo quando, con la Conferenza di Bruxelles sui diritti e i doveri dei belligeranti, si era per la prima volta sollevato il problema dell’uso dei gas nei conflitti. Armi, quelle chimiche, che hanno segnato la Storia del Novecento: due guerre mondiali, campagne coloniali, Guerra del Vietnam e d’Afghanistan, arrivando fino al bombardamento di Aleppo dell’aprile 2017 e dimostrando che, nonostante gli sforzi internazionali, gas e irritanti sono ancora un problema.
Ma quali sono gli Stati che ricorrono a tali strumenti? E, in generale, quali sono le aree del mondo più esposte al rischio di impiego di aggressivi chimici?
Il 13 dicembre 2013, l’Assemblea Generale del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite raccoglie la denuncia del rappresentante permanente della Repubblica Araba di Siria, secondo il quale “il 19 marzo, alle ore 07.30, gruppi terroristici armati hanno sparato un razzo contro Kfar De’, distretto di Aleppo. Il razzo seguì una traiettoria di 5 km, cadendo a 300 m da una postazione dell’esercito arabo di Siria. All’impatto, si alzò una grande nube di fumo che lasciò in stato di incoscienza coloro che vi entrarono in contatto. L’incidente ha causato la morte di circa 25 persone e il ferimento di 110 fra civili e militari, trasportati all’ospedale di Aleppo”.
La segnalazione è contenuta in United Nations Mission to Investigate Allegations of the Use ofChemical Weapons in the Syrian Arab Republic, rapporto sull’impiego di ordigni chimici durante la guerra civile siriana, che raccoglie testimonianze e relazioni su incidenti, simili a quello citato, nel 2012 e nel 2013. Khan Al Asal, Saraqueb e Sheik Maqsood sono alcune delle località nelle quali si dichiara siano stati impiegati aggressivi chimici come il Sarin; poi, come noto, lo stesso report conclude ci siano prove evidenti della presenza di arsenali chimici in territorio siriano. In verità, già allora non sarebbe stata una grande scoperta: dal 1971, anno del Trattato di cooperazione e di amicizia con l’Unione Sovietica, al 1986 la Siria riceve ingenti aiuti economico-militari dall’Unione Sovietica, ospita due basi russe e mantiene, anche dopo il 1991, strette relazioni con la Russia. La Repubblica Araba di Siria, dunque, al pari dell’Iraq, dell’Uzbekistan, del Tagikistan dispone di grandi arsenali di armi che risalgono al Patto di Varsavia. Le armi sovietiche, d’altronde, per semplicità di costruzione, manutenzione e costi contenuti sono fra le più diffuse al mondo ed equipaggiano eserciti di paesi meno sviluppati, milizie terroristiche e gruppi criminali.
Anche gas? Al di là del rapporti Onu è sufficiente fare un piccolo salto indietro nel tempo per rispondere alla domanda.
Nel 1992 gli scienziati russi Vil Mirzayanov e Lev Fedorov pubblicano su Moskovskiye Novosti “A poisoned policy” (n. 39, settembre-ottobre 1992), articolo nel quale asserisconono che, fra il ’70 e il ’90, il Soviet State Scientific Research Institute for Organic Chemistry and Technology ha sviluppato nuove armi chimiche, poi sperimentate nel poligono uzbeko di Nukus. La notizia esce alla vigilia del Cwc (Chemical Weapons Convention ) del 1993, che vieta sviluppo, realizzazione e stoccaggio di armi chimiche e che la Federazione russa sottoscrive lo stesso anno e ratifica nel 1997. Secondo i due esperti, si tratterebbe di armi di terza generazione, vale a dire ordigni che negli anni sono stati progettati e perfezionati e poi accantonati nelle basi militari del territorio dell’Unione. Nei vent’anni che separano gli accordi con la Siria dalla denuncia di Mirzayanov e Fedorov non si può escludere, quindi, che parte di quel materiale abbia raggiunto le installazioni sovietiche di Tartus e Latakia o che sia stato ceduto a paesi legati all’Unione Sovietica.
In fondo, nelle ex repubbliche dell’Urss la presenza (e lo stoccaggio) di armi chimiche non è cosa nuova. Ad esempio a Vozrozhdeniye, isola dell’ormai quasi prosciugato Lago d’Aral, nella quale le scorie di antrace della locale ex installazione sovietica rappresentano un pericolo ambientale che coinvolge due stati, quello uzbeko e quello kazako:
“Dal 1936 al 1992 sull’isola di Vozrozhdeniye sono stati testati agenti BW (Biologica Warfare) come i bacilli della tularemia (o malattia dei conigli), della peste bubbonica e del vaiolo. Nel 1951, gli scienziati militari russi riaprono il sito per sviluppare nuove arme biologiche, in previsione di un attacco BW contro l’Urss. Due anni dopo, creano un centro smallpox (vaiolo, nda) […] nel 1971, un’unità di ricerca che svolge controlli sul Lago d’Aral rilevando casi di infezione da vaiolo” si legge nel capitolo dedicato alle armi chimiche di Weapons of Mass Destruction – An Encyclopedia of Worldwide Policy, Tecnhology and History (E. A. Croddy, J.J. Wirtz, ABC-CLIO, 2005). La pericolosità delle scorie chimiche militari del Lago d’Aral è confermata da un lungo articolo pubblicato da Bill Powell sul sito Fortune Magazine il 16 settembre del 2002, nel quale si legge che “l’isola di Voz, come è noto, è stato il banco di prova principale per il programma di armi biologiche dell’Unione Sovietica e come tale è stato un luogo di sepoltura per ciò che rappresenta i nostri incubi post– 11settembre, una discarica da inferno: spore di antrace e vaiolo, a soli 800 km di distanza dall’Afghanistan”. Di quello stesso anno, poi, c’è anche la segnalazione dei militari americani stanziati nella base K2 di Karshi-Khanabad, Uzbekistan che, a giugno, scoprono tracce di sostanze nocive nella struttura un tempo struttura dell’Armata Rossa e, nonostante “i controlli medici su tutto il personale della K2 non abbiano fornito riscontri di esposizione del personale a sostanze tossiche“, come riferì allora alla Bbc il portavoce della guarnigione, colonnello Roger King, la base fu momentaneamente evacuata.