Il referendum tra i lavoratori dell’Alitalia si è concluso con una netta vittoria del No al 67%.
Sconfessione totale dell’accordo raggiunto dalle maggiori sigle sindacali con l’azienda e con il governo e consegna inevitabile di quest’ultima all’amministrazione straordinaria con la nomina di un commissario.
Col voto di ieri ne escono sconfitti i sindacati, la cui capacità di rappresentanza è stata sostanzialmente sconfessata e lo stesso governo che, per bocca del presidente del Consiglio e di alcuni tra i suoi più autorevoli ministri, aveva sollecitato un voto a favore del Sì.
Ora per i quasi 12mila dipendenti si aprono prospettive drammatiche e, difficilmente, essi potranno sperare nell’ennesimo intervento dello Stato, dopo che più di otto miliardi di euro è costata sin qui ai contribuenti italiani la società di bandiera, ora società privata, nella quale, scomparsi da anni gli utili, le perdite sin qui accumulate, oltre che a carico degli azionisti sono state trasferite in parte sulla fiscalità generale.
Non solo il governo aveva anticipato che in caso di vittoria del No la sorte di Alitalia sarebbe stata segnata e il fallimento pressoché inevitabile, ma, quand’anche Gentiloni e il suo governo cambiassero idea, non si vede quali altre risorse lo Stato potrebbero mettere a disposizione, oltre tutto creando un precedente che innescherebbe immediate repliche in altre situazioni aziendali parimenti insostenibili.
Già i costi degli ammortizzatori sociali previsti per un numero così elevato di lavoratori saranno particolarmente onerosi, ma, ciò che la crisi profonda della compagnia di bandiera fa emergere, è la débâcle complessiva del sistema Italia, gravato da una crisi economico-finanziaria tra le più violente della storia repubblicana e privato da una seria politica economica, alternativa al “tira a campare” di un governo espressione di un parlamento di nominati illegittimi.