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Unicredit, Banco Bpm e Mps. Chi e come ha venduto più Npl

I crediti deteriorati gravano sulle banche italiane e anche sull’economia in generale: perché, mentre vincoli patrimoniali si fanno sempre più stringenti, lo stock di sofferenze in pancia alle banche ha di fatto bloccato la trasmissione di credito alle imprese. E ritardato l’uscita dalla crisi.
L’avvio di un mercato di questi crediti deteriorati potrebbe essere la soluzione al problema. Ma il mercato stenta a partire, soprattutto per le differenze attese di venditori e potenziali acquirenti di sofferenze. Quali sono gli strumenti da mettere in campo per far saltare questo collo di bottiglia? Ne hanno fatto oggetto di una ricerca, e del volume edito da Egea “Il mercato degli Nps, tra domanda e offerta”, i professori Emanuele Maria Carluccio, che insegna economia degli intermediari finanziari all’Università di Verona, e Valter Conca, professore di management alla Bocconi.

GLI NPL CHE FRENANO LO SVILUPPO
Il volume parte da una definizione dello stock di Npl, che, come noto, per l’Italia sono 341 miliardi al lordo e vicino al 200 miliardi al netto. Il mercato complessivo in Europa vale mille miliardi e l’Italia vale il 28%, insieme a Francia, Spagna, Inghilterra e Germania, il 70%. Per l’Italia lo stock di crediti deteriotati vale il 22,2% del PIL (per la Francia questo valore è dell’8,3% e per la Germania del 2,4%). Un altro dato importante sono gli accantonamenti a copertura di questi NPL, che “per la maggioranza dei sistemi bancari internazionali si collocano tra il 35 e il 45%, Italia e Spagna si collocano attorno al 45-46%, in linea con il 44% registrato per l’intero sistema europeo”. Questi numeri da soli alimentano il dibattito su come sia possibile avviare un vero mercato dei NPL a livello corporate. I problemi individuati dalla ricerca sono diversi. E si parte dalla stessa “classificazione dei crediti deteriorati, tra non performing, dubbi, sotto osservazione fino al mondo in cui le esposizioni scadute vengono trattate dal punto di vista contabile ai differenti criteri con cui le posizioni deteriorate potevano rientrare nella categoria performing”.

PROBLEMI DI DEFINIZIONE
Per esempio, le modalità con cui le posizione assistite da garanzie e collaterale sono computer nell’aggregato dei crediti deteriorati rappresenta un elemento di divergenza tra Paesi. “Dall’esame dei bilanci dei principali 15 gruppi bancari dei paesi europei dal 2009 a metà del 2012 – si legge nel volume – emerge che la maggior parte di essi non includeva tra i crediti deteriorati quelli per i quali si prevedeva di non registrare perdite in futuro grazie alle garanzie disponibili. Le banche italiane seguivano, invece, criteri definiti dalla Banca d’Italia in conformità con la normativa prudenziale, che individuava le esposizioni deteriorate esclusivamente in base al merito creditizio del debitore, anche in presenza di ampie garanzie. Tale criterio, tra i più trasparenti e prudenti nel confronto europeo, accresceva il valore del NPL ratio e riduceva il tasso di copertura delle banche italiane rispetto a quelle estere.
NPL ratio e tasso di copertura per gli intermediari italiani ricalcolati con modalità simili a quelli adottati da numerosi intermediari esteri, ossia escludendo le poste interamente coperte da garanzie, risulterebbero decisamente più favorevoli per le banche italiane. I crediti deteriorati a giugno 2012 sarebbero stati inferiori del 32% e il NPL ratio sarebbe stato dell’8,5% a fronte del 12,4% riportato in media dalle banche italiane.”
In ogni caso alcun discrepanze, in particolare quella relativa alla definizione di non performing, dovrebbe essere stata superata dalla definizione di Eba, che ha incluso all’interno di questo cappello sia i crediti impaired sia quelli defaulted. Definizione alla quale la normativa italiana si è adeguata senza però impatti rilevanti sul suo stock di NPL.
“A ben vedere, se prima delle novità introdotte dall’EBA in materia di classificazione dei NPLs era quasi impraticabile un confronto dei crediti deteriorati nei diversi paesi, analizzare le implicazioni di tale fenomeno in un’ottica di benchmark internazionale è ancora oggi molto difficile. Le ragioni sono molteplici: la discrezionalità che ogni Stato mantiene ha comportato una variegata e sostanziale differenza nelle azioni perseguite per la riduzione dei NPLs”.

DIFFERENTI ATTESE TRA CHI VENDE E CHI COMPRA SOFFERENZE
Bad bank in vari Paesi europei, interventi statali come in Giappone e il tentativo italiano di dare vita a un mercato primario (vedi Gacs e fondo Atlante). Per la realizzazione del mercato primario, secondo gli autori del volume, hanno fondamentale importanza le aspettative delle due parte in causa: chi vende e chi compra. Tutti sembrano disposti a partecipare a questo mercato, mentre sulla soluzione bad bank solo il 60% delle banche si è dichiarato convinto. Per quanto riguarda i fondi, circa un terzo del campione intervistato è attivamente interessato a operare nella compravendita di NPL. Ma il punto dolente della questione è il differenziale prezzo/costo. Vendere NPL significa per la banca liberare capitale che “potrà essere destinato a impieghi remunerativi, nonché per migliorare lo stato di salute patrimoniale della banca”. Una cessione a un prezzo inferiore al net book value comporterebbe l’iscrizione a perdita del differenziale tra prezzo di cessione e NBV, che a giugno 2016 era pari al 42,4% del valore nominale. Per quanto riguarda i fondi, la situazione è molto variata dal 2015 al 2016: “Infatti diminuisce fortemente (dal 30% del primo campione al 12% del secondo) il numero di investitori che si attendevano un divario inferiore a 10 punti percentuali, fattore che avrebbe favorito il processo di compravendita, mentre più che triplica (un quarto dei fondi) il numero di quanti vedono uno scostamento del divario superiore ai 30 punti percentuali”. Per i compratori molto importante il tempo di recupero degli NPL per i fondi e il loro Internal rate of return: che è tra il 10 e il 20% per il 70% dei fondi e tra il 25 e il 30% per il restante 30%, ma può diminuire se il tempo di recupero cala dagli attuali 7,3 anni necessari oggi per estinguere le sofferenze.
Con queste esigenze contrapposte qualche operazione in Italia è stata compiuta. E il volume di Carluccio e Conca ne dà conto.

LE CESSIONE ITALIANE
Tra gennaio 2015 e giugno 2016 “i principali attori del mercato italiano, per quanto osservato dal Laboratorio Private Equity e Finanza per la Crescita, sono stati, dal lato dei venditori, UniCredit, con 4,78 miliardi di valore nominale ceduto, a cui si aggiungono ulteriori 625 milioni considerando gli smobilizzi intervenuti unitamente ad altri istituti di credito. Seguono MPS, con 2,81 miliardi ceduti, e Goldman Sachs, con una cessione di 2 miliardi di euro totalmente riconducibile allo smobilizzo del Progetto Archon. In riferimento alle banche italiane, il Banco Popolare risulta il terzo attore più attivo nel nostro paese, con 1,6 miliardi di crediti ceduti”.


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