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A ‘piene mani’ nel Rinascimento Italiano

La bella e ricca pubblicazione, Edizioni di Storia e Letteratura, “Il Rinascimento italiano a piene mani” della Fondation Barbier – Mueller pour l’étude de la poésie italienne de la Renaissance, sintetizza nel titolo l’intento di quest’opera, che non solo coglie ‘a piene mani’ il prodotto dell’attività intellettuale del Rinascimento ma permette una particolare full immersion in quel periodo storico frutto della lunga elaborazione culturale, politica e filosofica del Rinascimento Italiano.

Gli intellettuali ed i ricercatori che si alternano nelle stesure dei capitoli ‘toccano’ i volumi e i testi dei letterati, filologi di quell’illustre passato intessendoli con i propri ricordi di viaggio in Italia , in quelle città d’arte emblema del Rinascimento dove hanno ammirato l’arte recondita e nascosta nelle chiese fiorentine o romane e quella più palese dei palazzi e delle architetture che fanno del Bel Paese un museo a cielo aperto.
E’ un rapporto quasi intimistico quello che gli autori istaurano con gli autori antichi redivivi nelle loro passeggiate, nei loro viaggi, negli incontri inaspettati o sperati, comunque sempre fortemente ispirati con i poeti e letterati rinascimentali, con i pittori e gli intellettuali con i quali in modo assolutamente incantevole, oltre che immaginifico, entrano in contatto e con i quali dialogano magicamente.
Nell’ Italia rinascimentale anche i dipinti sono luoghi in cui entrare idealmente, lo specchio , la porta delle stelle davanti alla quale l’osservatore si libera dei limiti corporei della fisicità per penetrare il senso di un riflesso , di un ‘eterno presente’ che è allo stesso tempo capace di vicinanza e lontananza. Ne è un esempio la narrazione di una memoria di viaggio di Yves Bonnefoy della Cappella Brancacci di Firenze dove alla stessa ora serale, quasi all’ora di chiusura della chiesa , l’autore era solito entrare durante il suo soggiorno a Firenze nel 1950. Un appuntamento abituale, quasi un richiamo del luogo per lo studioso che ne ricercava la penombra per ricreare all’interno della cappella un sogno della città stessa, un microcosmo cromatico in cui si rifletteva il macrocosmo di tutta Firenze.
All’interno della Cappella Brancacci l’autore ricercava i Fatti di Masolino e di Masaccio, posti negli affreschi delle pareti, l’uno di rinfaccio all’altro, quasi il riflesso di due epoche attigue e distanti contemporaneamente. Masolino è ancora nel classicismo medievale con le sue figure di Adamo ed Eva posti l’uno accanto all’altra e dei loro sguardi aleatori nel momento della tentazione, dove la linea dei profili evidenzia le forme ma non le masse e di rimpetto “La cacciata dal Paradiso” di Masaccio che invece nelle forme imprimeva il peso delle coscienze, il dolore psicologico delle figure sofferenti e contratte nelle loro espressioni di sconforto.
Bonnefoy è assorto nell’osservazione del primo affresco e poi del secondo che quasi, afferma egli stesso, cerca di narrare i fatti e non l’attimo sognato da Masolino ed è quasi cosciente di mostrare quello che Masolino attraverso un diverso filo di ordito non vuole narrare. Le due rappresentazioni sono contigue e progressive, riflettono un intero apparato di pensiero quello medievale che precede quello umanistico. C’è una dialettica tra realtà e metafora, tra narrazione e rappresentazione che rende alle scene un palpito di vita.
Ne è un altro esempio il dipinto del “San Girolamo lettore” di Antonello da Messina nello sguardo di Michel Butor, il quale lascia intravedere il suo stupore mentre osserva, investito dalla luce che proviene dalla stanza raffigurata nel dipinto, e dalle spalle dell’osservatore tanto da farlo sentire dentro alla prospettiva, dentro alla cornice del quadro.
La luce delle finestre dello studio, il paesaggio che si intravede , le ombre e la luce sul pavimento, lo spazio profondo, lontano e vicino al tempo stesso, il microcosmo del dipinto che contiene le leggi di una prospettiva maggiore che contemporaneamente è metafora della concreta realtà, del dentro e del fuori.
In questo testo non si perde mai il filo di una narrazione che si intreccia ad una trama storica precisa dove gli ‘incontri’ con gli artisti ‘redivivi’ e le opere si aprono come stanze in cui entrare fisicamente come accade negli affreschi di Masolino della Guarigione dello storpio. C’è una scena che pullula di presenze, c’è uno storpio sulla lettiga in basso a destra che guarda il Santo autore del miracolo che sta per compiere, ma lo sfondo della scena è quasi predominante sull’intero palcoscenico con le finestre ad arco scure che si alternano regolarmente sulle facciate degli alti palazzi. L’autore del brano accosta questo particolare alla pittura di Giorgio De Chirico e in effetti si ha questa suggestione enigmatica come nelle rappresentazioni del grande Maestro della Metafisica.
Il dialogo con l’arte si fa diretto anche nella narrazione di Nadeiyrie Laneyrie – Dagen, quando dà la parola alla “nana” di Mantova che guarda lo spettatore in modo fisso con un’ espressione quasi austera, prendendo la parola.
Diamantina, la nana ritratta ne La Camera degli Sposi, affresco nel Castello di San Giorgio a Mantova, narra la sua storia con una lucidità incredibilmente intatta e smagliante, dopo quattrocentocinquanta anni da quando il maestro Andrea Mantegna l’ha raffigurata tra i componenti della nobile famiglia di Ludovico Gonzaga. La nana nel suo abito rosso ai piedi della duchessa Barbara e accanto alla figlia Barbara la giovane si trova a testimoniare una vita di corte anche giocosa, piena, completa, di cui il duca Ludovico andava fiero, sperando che la sua nobile stirpe potesse dare in futuro principe valoroso all’ Italia.
Diamantina rappresenta una sudditanza fedele fino alla morte e anche eterna in quell’affresco dove si è suggellato un momento della quotidianità di corte ancora capace di emanare un afflato di vita. Dai volti assorti presenti nell’affresco, dagli sguardi che sfuggono gli sguardi con la consapevolezza che la loro effige , affidata ai colori e alla sapienza artistica del Mantegna , sarebbe arrivata ai posteri intatta , vibrante, incorrotta.
Si alternano alle vicende delle arti figurative anche quelle letterarie di Petrarca e Ariosto. Le figure non sono solo abbozzate , ma emergono dai profili letterari, emergono dalle letture e dai ricordi rispettivamente di Francisco Rico e di Cesare Segre.
Due letterati, due poeti , Petrarca e Ariosto che hanno incarnato non solo gli intellettuali dell’epoca, ma quelle figure di intellettuali che erano coinvole negli affari di Stato, a cui si chiedevano consulti autorevoli e che gli uomini di Stato, i Principi o i Governi delle città ponevano ascolto e considerazione, al contrario di quanto avviene nella storicità attuale in cui il mondo politico ed intellettuale spesso sono separati oltreché contrapposti.
I Principi mecenati del Rinascimento avevano intuito quanto fosse importante la cultura all’interno delle loro corti per erudire lo spirito ed ingentilire i modi e senz’altro per un interesse legato a quella velleità di gloria e d’eredità di se’ che è appartenuto a Principi, Condottieri e Papi. Questo desiderio di fermento culturale non apparteneva solo al mondo laico ma anche ai principi della chiesa che spingevano allo studio dei classici e delle lingue antiche, creavano biblioteche, collezionavano opere d’arte, facevano erigere palazzi e luoghi di culto.
I viaggiatori che in quegli anni arrivavano in Italia e vi soggiornavano erano rapiti dalla bellezza dello stile e dalla ricchezza e varietà delle produzioni artistiche. La fruizione della bellezza era per gli studiosi e i letterati un arricchimento della vista e dello spirito erudito che nulla sottraeva all’ Italia molti a differenza dei molti sovrani europei, dominatori e condottieri che a “piene mani” sottrassero opere e gioielli d’arte creando un considerevole traffico di opere.
Non mancano gli autori che ebbero il sottile coraggio di criticare i loro mecenati.
Ne “Il segreto di Ludovico. Una fantasia” , capitolo di Cesare Segre , si segue a distanza molto ravvicinata il dialogo fantastico tra Ariosto e una sua nipotina che attraversano a piedi la bella Ferrara. La nipote domanda allo zio, ottimo affabulatore di narrarle episodi che avessero a che fare con fatti avventurosi, incidenti diplomatici che fossero accaduti tra lui e il Papa, come per esempio la volta in cui il Papa lo minacciò di gettarlo nel Tevere. Ma nel bel dialogo, costruito dalla fantasia di Segre, Ariosto preferisce portare l’attenzione della sua nipotina alla capacità di discernere l’acuta distinzione tra l’adulazione sciocca e sottomessa per la bieca possibilità di ottenere protezione, e quella invece arguta delle Satire che celavano sotto false apparenze la vera denuncia perché, sostiene Ariosto “anche il comportarsi bene presuppone delle regole”. Cesare Segre crea il segreto de Le Satire , il libro clandestino e postumo di Ariosto che con argute rime denunciò i comportamenti biechi dei Ferraresi suoi concittadini e della Chiesa. Nel dialogo il celebre poeta affida il segreto alla giovane nipote e le indica il cassetto dov’è riposto il suo manoscritto. Un bel passaggio del testimone che si lega all’affetto, il tramandare un segreto con fiducia assoluta e con la promessa che ella avesse svelato l’opera vent’anni dopo la morte di Ariosto cosicché le persone messe alla gogna fossero oramai morte.
Pare invece che la vera storia de Le Satire è che saranno pubblicate un anno dopo la morte di Ludovico Ariosto dal suo amico tipografo Francesco Rosso da Valenza il quale ,senza indicare il luogo e la data di stampa, le rese ai posteri del grande poeta . Le Satire condannate dalla Chiesa vennero messe all’Indice come libro proibito già nel 1583.
I dialoghi si susseguono nelle pagine del testo , ora creati dalla fantasia, ora suggeriti dalle letture dei vari studiosi come per il dialogo di Lionello Sozzi che ne cesella uno molto forbito alla corte di Francia tra il re Francesco I, sua sorella Margherita duchessa di Alencon e regina di Navarra, l’editore francois Juste, il tipografo piemontese Vincenzo de Portonariis e molti altri illustri ospiti che disquisiscono alla presenza del Re di Francia di Leonardo da Vinci, di Benvenuto Cellini, in cui si accenna alla Libertà di pensiero e al fatto che la poesia debba nutrirsi di Filosofia. Argomenti e personaggi che sembrano, e sicuramente lo sono, essere forgiati da una lenta ed erudita attività di lettura dove monologhi e dialoghi con l’arte e i massimi rappresentanti della Cultura italiana e francese si sono confrontati a volte con veemente passione, altre volte con furore di critica, ironicamente e avendo comunque ben chiara la comprensione che non è sempre lecito esprimersi di fronte al Re e che molte opere sono il frutto di questo contrasto interiore: il bisogno di esprimersi e di rivelare attraverso l’arte la vera, autentica immagine della storia e la costrizione del genio narrativo imprigionato dalla censura laica e religiosa.
Un libro costruito con ‘gusto’, raffinata narrazione, in cui verità e fantasia si intrecciano, si alternano in chiaro scuro, oppure appaiono come fantasmi della memoria e della immaginazione, dove velate e deturpate sono le immagini iconoclaste ricordate nell’affresco di Eton.
L’affresco di Eton che dispiega una narrazione sorprendente con figure leggiadre dove si ravvisa qualche influenza fiamminga forse , quasi certamente, italiana, porta le influenze di diverse tradizioni religiose; il mito e la magia disegnano la filigrana che si staglia in controluce.
La Cultura stessa intessuta di innumerevoli influssi e memorie ancestrali, memorie che sono improvvisamente presenti e significati che sono immediatamente comprensibili alle menti e agli intelletti di rari intellettuali, Vati della poesia e di chi amando profondamente l’Arte la riconosce tale nella sua semplice manifesta apparizione.


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