Skip to main content

Tutti gli effetti geopolitici del plebiscito pro Erdogan in Turchia

Guido Salerno Aletta Erdogan

Che lo si voglia ammettere o no, anche il referendum modificativo della costituzione turca segna un passo ulteriore di disgregazione dell’Europa, intesa non tanto come istituzione sovranazionale quanto come area di influenza attrattiva e pervasiva. Dall’estremo occidentale britannico a quello orientale turco, due ex imperi hanno ripreso una strategia volta a ricostruire aree proprie, distinte e competitive, rispetto a quella in cui hanno gravitato per decenni a Bruxelles, sede della Nato ancor prima che delle istituzioni europee.

Molto prudentemente, il principio di laicità delle istituzioni non è stato toccato dalla riforma costituzionale: Erdogan ha evitato di mettere sul tappeto un tema ancor più divisivo della sua stessa leadership. Tra la rilegittimazione popolare attraverso una riforma che aumenta i poteri del presidente, ed un contesto sociale in cui ormai da anni la questione del divieto di portare il velo crea continui conflitti politici e giurisdizionali, ha preferito giocare solo la carta del plebiscito politico. Per l’altra, se servirà, ci sarà tempo.

Non c’è, però, solo una questione di poteri presidenziali accresciuti, con l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica e la eliminazione del ruolo di primo ministro che caratterizza sistemi semi-presidenziali come quello francese. Il dato essenziale del voto popolare risiede nella convalida della linea politica tenuta in questi anni dal Presidente Recep Tayyip Erdogan e nella sconfitta di qualsiasi altra prospettiva che non sia la proiezione diretta della Turchia ad ovest verso i Balcani, a sud-est verso la Siria ed il Medio Oriente, e nel Mediterraneo per soppiantare l’Egitto come potenza regionale egemone intervenendo anche in Libia.

Per l’Europa, invece, è la conferma di una catastrofe geopolitica, se solo si riflette al quadro euro-mediterraneo che era stato delineato nel 2008, volto ad unire tutti i Paesi che vi si affacciavano, escludendo sia la tecnocrazia bruxellese, sia la insuperabile questione ontologica rappresentata dalle comuni radici giudaico-cristiane, che avrebbero dovuto garantire uno zoccolo duro per la costruzione di un super Stato europeo. La stessa mistica delle quattro libertà inseparabili, circolazione di beni, servizi, capitali e uomini, è stata strumentalizzata: è successo in Gran Bretagna, e sarà così per la discussione sulle regole della Brexit; ma lo è stata ancor più nei confronti della Turchia. Il rifiuto di ammetterla, dopo tanti anni di attesa, è stato mortificante, addirittura umiliante nei confronti di un popolo che di fierezza ne ha da vendere. Prevalse ancora una volta il mito della prospettiva della Unione politica: fondato sulla competizione interna irriducibile, in un decennio di crisi ha portato dapprima al collasso di questa stessa prospettiva, alla ostilità sorda verso l’Unione Euromediterranea, ed all’emancipazione definitiva della Turchia dall’area europea.

Su tutto ha prevalso il caos determinato dalle Primavere arabe, vivacemente sostenute dall’amministrazione Obama e dal Segretario di Stato Hillary Clinton. In esso si è insinuata non solo la nascita del fantomatico Stato Islamico, quanto la potenzialità di espansione della Turchia, che deve far leva sul dato religioso per superare le differenze che caratterizzano il mondo arabo, rimasto sempre quello descritto da T. E. Lawrence ne I sette pilastri della saggezza. E’ accaduto con il sostegno ai Fratelli musulmani in Egitto, ed accade in Libia. Ed è in questo caos che si rimettono in discussione i confini politici tracciati col righello nell’accordo Sykes–Picot tra Gran Bretagna e Francia, per spartirsi lo scacchiere Ottomano ancor prima che le sorti dell’Impero fossero decise alla fine della Prima guerra mondiale, punendolo per l’alleanza con la Germania.

Il fattore religioso torna decisivo per governare l’area araba, così come accadde nei primi del ‘500, quando l’Impero Ottomano conquistò dapprima l’Egitto e poi la penisola araba. Fu allora che i Sultani rivendicarono il titolo di Califfo: per farne un uso strumentale, per accreditarsi, e legare a sé il mondo arabo. Quando cadde Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente, anche il titolo di Cesare venne usurpato, ma non servì mai a nulla: per i Turchi, che combattevano l’Occidente, era solo un ridicolo orpello. Così come oggi la domanda di accessione della Turchia alla Unione è solo un pezzo di carta.
Il sogno europeo dell’Unione politica e quello americano di esportare la democrazia nel Medio e Vicino Oriente sono svaniti. E ci riportano il Mediterraneo indietro nella storia, di almeno due secoli.


×

Iscriviti alla newsletter