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Dal populismo al buon governo. Restituiamo dignità alla politica

Baretta, populismo, giovani

Quali sono le questioni di fondo che una prospettiva riformista di buon governo deve contrapporre al populismo incipiente? Innanzitutto dobbiamo seriamente riflettere sulla qualità della nostra democrazia. A noi sta a cuore la democrazia. Ma proprio per questo vediamo come essa sia sottoposta a stress dai meccanismi che presiedono la contemporaneità. A cominciare dalla constatazione che la democrazia è lenta! La strumentazione tecnologica disponibile, che consente di affrontare la realtà on time, accelera i processi decisionali e le comunicazioni dirette e sovranazionali tra i soggetti. Non penso solo alla velocità delle transazioni finanziarie, sulle quali si sta studiando, ormai, un regime universale, convenzionale, di “tempo assoluto” per fronteggiare gli squilibri derivanti dai millesimi di secondo che una transazione impiega per spostarsi, a esempio, da Sidney a Londra, nel momento della chiusura dei mercati.

Penso, soprattutto, alla farraginosità dei meccanismi decisionali dei nostri Parlamenti e delle assemblee elettive in generale. La ridicola polemica sulle aule vuote il lunedì è fuorviante, perché si concentra su un aspetto del tutto spiegabile, quando il vero nodo è la lungaggine dei meccanismi. Avevamo provato, con il superamento di una Camera e con la riforma del Titolo Quinto, a fare un passo in questa direzione. Ma, non è andata. Oggi, però, si pone un nuovo problema, alla luce del risultato del referendum: riformare e correggere almeno i regolamenti parlamentari e riorganizzare il rapporto tra Stato ed enti locali. In ogni caso, la risposta alla lentezza della democrazia sta nell’aumento della partecipazione dei cittadini. Ma la strada non sono i referendum, la fuga nell’assemblearismo, nella democrazia diretta, bensì nel rafforzamento della democrazia delegata.

Nel suo Processo a Gesù, Zagrebelski, quando non era ancora convertito all’assemblearismo, ha descritto con chiarezza i limiti del ricorso al popolo come deresponsabilizzazione dei governanti e come il popolo sia, in tal modo chiamato, a esprimersi indipendentemente dal merito, come è successo, per l’appunto, nel più famoso caso giudiziario della storia. Serve un ritorno alla partecipazione politica e sociale. Politica e società offrono, infatti, molteplici forme di partecipazione; si pensi al volontariato, alla vita dei quartieri e dei circoli di partito, alle feste di paese che riscoprono e valorizzano tradizioni. Riorganizzare l’impianto dello Stato e delle autonomie locali, far vivere il senso di comunità, dare spazio alla rappresentanza, in una prospettiva di buon federalismo è la strada che oggi deve vederci impegnati.

Vi è un altro punto che riguarda la buona democrazia che crea dei problemi. La questione di fondo sono le promesse non mantenute da parte dei politici una volta raggiunto il potere. Ma, provocatoriamente chiedo: si possono mantenere le promesse? Sempre più si avverte uno scarto tra le esigenze comunicative delle campagne elettorali, che tendono a semplificare, ad ammaliare, a caricare di aspettative e la dura realtà del governare. Chi eleggiamo? Chi promette di più o chi garantisce il … buon governo? Sfidarsi sulle promesse rischia di essere un meccanismo perverso. Chi alza di più la posta vince. È una condanna a priori, perché chi vince sarà costretto a tradire.

Un secondo terreno è l’Europa. Ci può essere un progetto riformista di questo respiro senza l’Europa? No! Serve, dunque, ancora e più di prima, l’Europa. Serve rilanciarla attraverso la radicalizzazione di un percorso di modifiche strutturali capace di recuperare lo spirito del manifesto di Ventotene. Perché in questo scorcio di secolo l’Europa rischia di restare schiacciata. Tra Trump e Putin. Tra gli Stati Uniti, che invocano e osannano misure protezionistiche, e la Russia, che mira a estendere il proprio controllo sul bacino del Mediterraneo.

Una prima risposta è arrivata. E non mi riferisco soltanto al segnale, positivo, che, per fortuna, è venuto dai palazzi, alla firma unanime dei 27 Capi di Stato sotto la Dichiarazione di Roma; mi riferisco soprattutto al messaggio che viene dalle piazze, dalle persone. C’è un sentimento nuovo, un vento contrapposto che sembra spirare per l’Europa. Ed è da quello che il progetto riformista deve ripartire. Dalle migliaia di persone che sono scese in piazza a Londra per gridare il loro no alla Brexit; da quanti in Olanda hanno bocciato la proposta razzista di Geert Wilders, ribadendo la vocazione all’apertura di uno dei Paesi che hanno storicamente più creduto nell’Europa; dalle migliaia di persone che hanno manifestato pacificamente a Roma; dal milione di persone che si sono riunite a Monza per sentirsi dire “abbracciamo i confini”.

La terza questione è di contenuto. La vera, grande, irrisolta questione della modernità globale è la crescita smisurata delle disuguaglianze. Milioni di persone escono dall’oscurità e dall’emarginazione globale e, molti di più sono, fortunatamente, seduti al tavolo, ma drammaticamente le condizioni tra i commensali sono sempre più diverse. È vero che la disuguaglianza è una costante della Storia; c’è sempre stata; ma ciò che la rende insopportabile, oggi, più che nel passato è che essa è globale. È presente, con le stesse caratteristiche, in ogni Stato, tra gli Stati; in ogni città, tra le città…

Inoltre la disuguaglianza, più che mai, non è solo economica. Cosa è la disuguaglianza oggi? Quando Papa Francesco, in evidente alternativa culturale a Trump, parla di “periferie esistenziali” spiega con chiarezza qual è la natura e la drammaticità della disuguaglianza contemporanea; e, qual è la sfida della nostra epoca. Infine, solo avendo a cuore e nei programmi la lotta alle disuguaglianze potremo parlare alle persone con un linguaggio di responsabilità. Ho detto, all’inizio, che abbiamo pensato, sbagliando che la crescita fosse infinita. Dopo lunghi anni di crisi economica stiamo cercando di uscirne. Ma come? Riproponendo gli stessi modelli che ci hanno portato proprio all’orlo del baratro: il consumismo esasperato, l’individualismo, l’egoismo. Ma la crisi ci dovrebbe aver ben insegnato che le risorse sono scarse, che ci attende un periodo di contrazione della crescita e di maggiore redistribuzione.

Che fare? Siamo condannati al pauperismo o alla decrescita felice? Proviamo a esplorare altre strade che rendano compatibile l’economia capitalista con l’etica del bene comune. Proviamo, a esempio, a esplorare la strada della distinzione tra benessere e spreco. Il benessere è un valore, che vogliamo sia alla portata di tutti; ma lo spreco è di più, è un disvalore al quale, però, ci siamo abituati. Pensiamo allo spreco energetico, o a quello idrico, o, ancor di più, a quello alimentare. Non sto facendo affermazioni solo etiche, sto parlando di economia, di Pil, di risorse che possiamo recuperare e reimpiegare per un maggior benessere di tutti, delle nostre comunità locali, della nostra comunità globale. Una cultura della sobrietà che non implica rinunce, ma scelte; che non significa meno, ma meglio. Per prospettarlo c’è bisogno di un atteggiamento collettivo che diventi dimensione comunitaria, di un atteggiamento che dovrà ispirare la vita dei leader, di un atteggiamento che si afferma come dimensione comunitaria.

O siamo capaci di affermare valori in grado di affrontare con verità e coraggio queste strettoie e affidarli a programmi concreti che li attualizzino, o non ne verremo fuori e il populismo sarà solo una tappa di un cammino collettivo di confusione, di disperazione. Ma non succederà se, nella nostra visione del mondo, nella prospettiva del nostro impegno, non abbandoneremo mai una incrollabile fiducia nella storia e nell’umanità, che tocca a noi testimoniare. Pochi giorni fa abbiamo ricordato i 50 anni della enciclica Populorum Progressio. Al capitolo 17, in un passaggio drammatico ed esaltante, Paolo VI ci dice: “Le civiltà nascono, crescono e muoiono”. Ma, subito, aggiunge: “Ma, come le ondate dell’alta marea penetrano ciascuna sempre più a fondo nell’arenile, così l’umanità avanza nel cammino della storia”.

Le forze riformiste, politiche e sociali, possano vincere il populismo, i populismi (e, forse anche le elezioni!), pur in questo contesto avverso, solo se radicalizzano le scelte riformatrici. Solo se confusi tra la gente, saremo riconosciuti come portatori sani di solidarietà e di buon governo. Non da soli, non in pochi, non nell’accademia, non solo nei convegni, ma nel popolo, tra la gente… Mino Martinazzoli era solito dire: “Andate in strada, la politica è lì!”.

Solo offrendo una prospettiva nettamente alternativa a quella populista si è credibili e dunque interlocutori di un popolo disorientato e scontento. Trump, Le Pen, Salvini e Grillo offrono suggestioni. Chi offre speranze?

 



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