Tutti conosciamo l’affresco di Ambrogio Lorenzetti, dipinto nel 1338 e conservato nel Palazzo comunale di Siena, che, nella sintesi iconografica propria dell’arte pittorica, esprime il senso profondo dell’espressione “buon governo”. Concordia, pace, forza, prudenza, magnanimità, temperanza, sono alcune delle figure retoriche utilizzate nell’allegoria senese per descrivere, soprattutto attraverso gli episodi della vita quotidiana, le caratteristiche di quanti vogliano impegnarsi nella vita politica e sociale.
In un’altra sala – quella dei Nove, attigua alla sala del Mappamondo – qualche decennio prima, Simone Martini aveva lanciato, dalle braccia del Bambin Gesù, un messaggio dal profondo valore sociale ed etico: “Amate la giustizia, voi che governate la terra”. Sta, ancora oggi, in questo connubio tra governo della res publica e giustizia, il senso profondo, l’incarnazione, direi, della politica, intesa come virtù che porta al conseguimento di quello che, nella stessa epoca storica, San Tommaso definì: “ad bonum comune”, il bene comune!
A distanza di sette secoli quelle immagini sono ancora lì, non come rappresentazione di un’idea di governo fissa e immutabile nel tempo, di un periodo storico turbolento, ma fertile; ma come monito per l’oggi, la cui turbolenza ci appare evidente, meno la sua fertilità… Leggiamo, in quei messaggi, concetti come: diritto, società civile, partecipazione, giustizia sociale. Il cuore profondo di una politica che vuole tornare a interpretare i bisogni delle persone, traducendoli in coerenti scelte e azioni. Il “bene comune”, dunque, resta lo scopo del buon governo. Ma, ecco il punto. Il “bene comune” è altro dal “sentire comune”!
La politica di ogni tempo, per rastrellare facili consensi, ha giocato sulla demagogia; ma quella moderna, in particolare, trascinata dai meccanismi, magnifici e terribili, dell’immediatezza della comunicazione, tralascia le visioni strategiche di lungo periodo, ignora l’analisi sistemica di bisogni che richiedono, invece, risposte strutturate. È nel difficile, fragile, ma prezioso discernimento tra “bene” e “sentire” comune, che ci dobbiamo muovere; che deve muoversi la politica contemporanea, alla ricerca di un senso di quanto sta accadendo e di come trovare risposte vere, ma anche convincenti, agli occhi delle moltitudini che esprimono sentimenti sempre più diffusi di rabbia, di fastidio, di distacco, di noia.
La fiducia nelle istituzioni è erosa e si cercano quelle sicurezze che sono venute incrinandosi, o sono addirittura compromesse, nelle proposte semplici e facili di chi teorizza l’identità come chiusura, difesa, autotutela. E, così, si è alzato un vento, un forte vento di maestrale, che spira da occidente, da nord ovest. Si è alzato con la vittoria del leave al referendum per la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione europea; ha soffiato più forte sull’onda di quell’America first, risuonato a Capitol Hill durante il giuramento di Donald Trump. Un vento che porta muri, protezionismo, autosufficienza, limitazioni delle libertà individuali e rifiuto del diverso; si è sentito, da noi, con la vittoria del no al referendum costituzionale.
Un vento sospinto, però, da un impetuoso consenso popolare. Perché? Cosa muove, verso questa prospettiva, che non esito a definire regressiva, persone “normali”, più o meno colte, mediamente civili, in fin dei conti democratiche, popolari o borghesi, poveri o ricchi, intellettuali e professionisti, senza distinzioni, si sarebbe detto una volta, di “classe”, di ceto, di valori civili, di credo?
Sottolineo queste caratteristiche perché dobbiamo sfuggire alla perniciosa tentazione di classificare ideologicamente quanto sta accadendo. Di utilizzare, come fanno ancora molti, le categorie tradizionali di destra e sinistra, come criterio di lettura dei comportamenti, non solo dei leader (che già non funziona del tutto), ma, addirittura, dei popoli. Non perché non esistano più destra e sinistra, ma perché vanno seriamente reinterpretate e ridisegnate.