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Rischio egemonia finanziaria Usa sui paesi Emergenti

Mi sorprendo a leggere un capitolo del nuovo Global financial stability report del Fondo monetario che racconta una cosa del tutto ovvia pure ai dilettanti come me, eppure evidentemente meritevole d’essere approfondita per ragioni che forse sono d’accademia e forse no: il peso specifico finanziario degli Usa e i suoi effetti in un mondo che sta sperimentando uno dei gradi più profondi di integrazione finanziaria della storia recente. In un momento in cui gli Usa hanno chiaramente fatto intendere che sono decisi a normalizzare la loro politica monetaria, dopo averla allentata come mai nella storia, la domanda fino a che punto un altro paese possa considerarsi immune da questa decisione – che poi è quella che si fa il Fmi – assume un’importanza strategica, specie in un mondo che si pregia di ospitare banche centrali indipendenti e governi sovrani. Quest’ultima caratteristica, in particolare, è il lievito ideale per le polemiche contemporanee. Quanto è sensato il sovranismo politico in un’epoca segnata da una globalizzazione finanziaria centrata sulla moneta di un singolo stato?

Rispondere scomoda questioni complesse che certo non possono essere esaurite nelle poche righe di un post. Perciò contentiamoci qui di scorrere l’analisi del Fmi che ha il pregio di mettercela tutta e inventare anche un indice per provare a quantificare in che modo l’elefante americano è capace di impattare sulla cristalleria globale adesso che il denaro è diventato più caro ed è destinato – salvo improvvisi (e preoccupanti) cambi d’opinione – a diventarlo ancor più in futuro. “La decisione della Fed di alzare i tassi di interesse – sottolinea il Fmi – aumenta i rendimenti sui beni degli Stati Uniti, e attrae capitali da altri paesi. Di conseguenza, i tassi di interesse in tali paesi possono salire, rendendo più difficile per i consumatori e le aziende a ottenere il credito di cui hanno bisogno per acquistare più beni o investire in nuovi macchinari. Questo potrebbe essere uno sviluppo sgradito in un paese che sta cercando di mantenere bassi gli oneri finanziari per combattere la disoccupazione, per esempio, o sostenere la crescita economica”. La globalizzazione finanziaria, come è stato scritto migliaia di volte, rischia di spiazzare l’economia reale, proprio in virtù della capacità che hanno i capitali di fluire liberamente dove meglio vengono remunerati e non necessariamente dove servono. Per questa ragione molti autori guardano con crescente interesse al ritorno dei controlli sui capitali.

Per provare a quantificare il grado reale di “penetrazione” della decisioni Usa nel resto dei paesi, il Fmi ha sviluppato un indice, aggregando diversi strumenti, secondo cui mentre è innegabile l’influenza degli Usa, è altrettanto vero che i paesi hanno un certo grado di libertà – non uguale per tutti ovviamente – che consente loro di farsi promotori di politiche individuali. “I nostri indici – scrive il Fmi – mostrano che gli eventi globali pesano tra il 20 e il 40 per cento delle condizioni locali in tutti i paesi, lasciando ai responsabili politici un notevole margine di manovra. Anche se i mercati finanziari sono più integrati, la capacità dei paesi di controllare le condizioni interne è diminuita solo lievemente nel corso degli ultimi due decenni”. Il problema semmai è che “la velocità e la forza con cui gli shock finanziari esterni tendono ad influenzare i mercati locali spesso rendono difficile per i responsabili politici reagire in modo tempestivo ed efficace”. La forza della globalizzazione, insomma, riposa nella debolezza di chi la subisce più che in se stessa. E probabilmente anche nel fatto che le contromisure sono assai più lente a rilasciare i propri effetti rispetto alle cause che le determinano.

Il peso degli Usa nel gioco globale viene osservato utilizzando un indice che abbiamo imparato a conoscere, il VIX, l’indice che misura la volatilità delle opzioni sul mercato di Chicago, che viene osservato in stretta correlazione con le condizioni finanziarie globali. Il Fmi osserva che la sensibilità alle oscillazioni Usa è assai più pronunciata per i paesi emergenti che per quelli avanzati e per questa ragione invita i primi a dotarsi di strumenti di controllo, come ad esempio mercati finanziari locali più profondi e una base di investitori locali capaci di compensare eventuali deflussi esteri. Che è come dire a un povero che dovrebbe diventare ricco per non patire la miseria. Se fossero in grado di non essere dipendenti dai flussi esterni di capitali, possibilmente denominati in dollari, non sarebbero paesi emergenti ad evidente sovranità limitata. Ma questo il Fmi non lo dice. Non è politically correct.

Twitter: @maitre_a_panZer


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