Poco importa, a questo punto, se trainati dal Fatto Quotidiano di Marco Travaglio o trainanti, i grillini sono rimasti gli unici a tifare per Henry John Woodcock piuttosto che per Giuseppe Pignatone, per la Procura di Napoli piuttosto che per quella di Roma, e a indicare nell’inchiesta giudiziaria targata Consip la dimostrazione del renzismo familista e affarista. “Il giglio magico è l’affare Consip”, ha sentenziato il vice presidente, appunto grillino, della Camera Luigi Di Maio. Che, rasserenato davvero o per finta dalle assicurazioni pubbliche di Davide Casaleggio di non aspirare alla politica, si sente saldamente in gara per rappresentare il Movimento 5 Stelle nella corsa a Palazzo Chigi. Dove per prima cosa, se dovesse mai arrivarvi, dovrebbe fare installare nel suo studio un bel mappamondo, come fece per altri motivi il Duce a Palazzo Venezia, in modo da non sbagliare paese quando allunga lo sguardo oltre l’Italia, senza più scambiare, per esempio, il Venezuela con il Cile, o viceversa.
Per seconda cosa il giovane Di Maio dovrebbe farsi sistemare sulla scrivania del capo del governo i testi da consultare ogni volta che gli venisse la tentazione di usare un congiuntivo, vista la nota malattia che l’affligge, diagnosticata dal costituzionalista e docente universitario Paolo Armaroli come congiuntivite.
Per tornare alle indagini giudiziarie sugli appalti della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, la Consip appunto, e ai guasti procurati da un capitano dei Carabinieri del nucleo ecologico pasticciando, quanto meno, con le intercettazioni, e scambiando per un agente dei servizi segreti un cittadino incuriosito in una piazza da militari che rovistavano nei cassettoni dell’immondizia, alla ricerca – si sarebbe poi saputo – dei pizzi e pizzini cestinati nel suo vicino ufficio dall’imprenditore Alfredo Romeo, i grillini non hanno dubbi. Secondo il pentastellato Mario Giarrusso gli svarioni del capitano sono stati atti di “sabotaggio”, magari a sua insaputa, come la casa scontata al Colosseo acquistata dall’allora ministro forzista Claudio Scajola o, molti secoli addietro, la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, che cercava invece l’India.
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Vedrete che prima o dopo i grillini inseguendo le tracce del sabotaggio rivaluteranno l’ex presidente della Camera Luciano Violante, da loro osteggiato con successo negli anni passati come candidato del Pd a giudice della Corte Costituzionale, temendo forse di ritrovarselo poi presidente di quel consesso.
Perché Violante? Che c’azzecca Violante – direbbe Antonio Di Pietro – con un movimento come quello grillino, da cui è distante politicamente anni luce? Potrebbe azzeccarci perché l’ex presidente della Camera ha espresso nei giorni scorsi la convinzione che un capitano dei Carabinieri non possa comportarsi come quello incriminato dalla Procura di Roma senza avere avuto le necessarie coperture. A che livello, se militare, politico o giudiziario, sarebbe naturalmente da accertare. Ma i grillini non hanno bisogno di accertamenti. Essi sanno, al pari di Marco Travaglio, il quale ne ha appena scritto sul suo giornale, che gli errori del capitano dovevano servire, o comunque sono serviti, a infangare le indagini. O comunque a distrarre l’attenzione perché si potesse e si possa parlare delle intercettazioni manipolate anziché del fatto che “il caso Consip è ancora lì e il padre di Renzi è ancora indagato”, ha detto anche il già ricordato vice presidente pentastellato della Camera Di Maio.
Tutto torna, come vedete, nel percorso logico e informativo dei grillini e del Fatto Quotidiano. Di cui continuo tuttavia a ritenere che Matteo Renzi, l’altra sera nel salotto televisivo di Lilli Gruber, abbia fatto male a storpiare alla maniera di Travaglio il nome, chiamandolo Falso Quotidiano. E ciò sia perché un politico, specie del livello che Renzi si attribuisce, non deve mai scadere a questo livello, anche o soprattutto se provocato, sia perché egli ha consentito due giorni dopo a Travaglio di ricambiargli la cattiveria elencando con un titolone di prima pagina tutte le cose dette, promesse o minacciate dall’allora presidente del Consiglio e poi non mantenute, e rivelatesi quindi un falso secondo il direttore del giornale: a cominciare dal ritiro dalla politica, e non solo momentaneamente da Palazzo Chigi, in caso di sconfitta nel referendum sulla sua riforma costituzionale. Che si tradusse in una occasione offerta ai più accaniti avversari per votargli e fargli votare contro nelle urne del 4 dicembre scorso.
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Il cavalcamento delle indagini Consip, almeno nella direzione impressa dagli investigatori di Napoli, che pure negano a parole di essere entrati in conflitto con quelli di Roma, e viceversa, per cui anche degli uni e degli altri si potrebbe curiosamente dire che si sarebbero scontrati a loro insaputa, risponde ovviamente all’esigenza dei grillini di rischiare il barile elettorale della protesta e dell’antipolitica.
Consapevole che, a dispetto della sicurezza ostentata, il suo movimento non potrà raggiungere il 40 per cento dei voti oggi richiesto per incassare il 55 per cento dei seggi della Camera, e rimossa ogni riflessione sul Senato, dove si arriva con altre regole e un governo deve comunque guadagnarsi la fiducia, Di Maio -sempre lui- ha detto che basterà prendere un solo voto in più degli altri perché i grillini reclamino dal capo dello Stato il conferimento dell’incarico di fare il governo, e il diritto di farlo e di presentarsi al Parlamento.
In pratica, Di Maio immagina per la diciottesima legislatura uno scenario rovesciato rispetto a quello iniziale di questa che sta finendo, quando l’allora segretario del Pd reclamò e ottenne dal capo dello Stato Giorgio Napolitano il mandato di presidente del Consiglio. Ed ebbe l’infelice idea di rifiutare la prospettiva delle cosiddette larghe intese con l’odiato Silvio Berlusconi per cercare l’aiutino dei riottosi grillini ad un governo dichiaratamente e velleitariamente “minoritario e di combattimento”.
Ma Napolitano, dal quale credo che assai difficilmente si discosterebbe il successore Sergio Mattarella, stoppò Bersani togliendogli praticamente l’incarico, che solo allora si scoprì essere stato semplicemente un “pre-incarico”, perché si sentiva vincolato dalla Costituzione a consentire la formazione di un governo a base maggioritaria predefinita, non immaginata e da cercare giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, provvedimento per provvedimento, dichiarazione per dichiarazione, starnuto per starnuto.