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Da Trump un test per Putin e un colpo all’asse Iran-Russia

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Per la prima volta da anni la Russia si trova sotto pressione, messa di fronte alle sue responsabilità di potenza mondiale quale pretende di essere considerata. A pochi giorni dal raid missilistico Usa sulla base siriana da cui è partito l’attacco chimico di Assad, stanno emergendo con maggiore chiarezza effetti e obiettivi dell’iniziativa dell’amministrazione Trump. Certamente la deterrenza alla diffusione e all’uso di armi di distruzione di massa è un vitale interesse di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti e non è diretta solo ad Assad, ma anche all’Iran e alla Nord Corea. Ma più che una punizione al regime di Assad per i suoi crimini di guerra, rappresenta un test per Mosca: se la Russia vuole essere considerata una potenza di primo piano sulla scena globale, deve dimostrare di essere un player responsabile, che coopera per la stabilità della regione, e non uno “Stato canaglia” fattore di instabilità. Come spiegavamo qualche giorno fa, i primi passi dell’amministrazione Trump nei confronti di Mosca sono volti a “testare” quanto incondizionato sia il sostegno russo ad Assad e, quindi, quanto solida e strategica la sua alleanza con il regime degli ayatollah.

Mentre Barack Obama decise di non reagire al mancato rispetto della “linea rossa” sull’uso di armi chimiche da parte di Assad, ignorando le prove della responsabilità del regime siriano fornite dall’intelligence (anche turca e israeliana), per non compromettere la sua principale iniziativa di politica estera – l’accordo con Teheran sul nucleare – il raid ordinato da Trump venerdì notte è un colpo all’asse Iran-Russia e indica la volontà della nuova amministrazione Usa di sovvertire la politica di Obama. E il messaggio di Trump a Putin è molto chiaro: se la Russia vuol vedersi riconosciuto quel ruolo da protagonista nell’ordine mondiale che da anni insegue, se vuole trovare posto al tavolo dei grandi, dove i temi globali vengono discussi, deve sganciarsi da Assad e da Teheran, e cooperare con gli Usa per una soluzione in Siria e la stabilità della regione. L’obiettivo della visita del segretario di Stato Usa Tillerson a Mosca sarà convincere Putin che da questo dipende ogni speranza di un riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia. In questo caso interventismo umanitario e realpolitik coincidono, ma è politico, né militare né morale, il vero movente di Washington. È il primo atto di una strategia più ampia per ribilanciare la politica americana in Medio Oriente in opposizione all’Iran e al suo asse.

Come ha spiegato Lee Smith, dell’Hudson Institute, sul Weekly Standard, la ricerca di un accordo con Teheran “ha determinato sia la politica in Siria sia la più ampia strategia dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, un riavvicinamento all’Iran. Obama ha declassato alleati tradizionali come Israele, Giordania, Egitto, Arabia Saudita e Turchia (un membro della Nato), mentre promuoveva gli iraniani e apriva una finestra di opportunità per la Russia, grata di essere di nuovo un attore in Medio Oriente dopo 40 anni di assenza”. Non ha mostrato alcun interesse a “difendere l’architettura della sicurezza regionale che gli Stati Uniti avevano edificato nell’arco di 70 anni”. Sarà anche stato poca cosa, ma il raid ha mostrato quanto in realtà sia vulnerabile la posizione russa in Siria. La fase in cui Putin poteva ampliare liberamente e a costo quasi zero l’influenza russa in Medio Oriente, approfittando del fatto che a Obama interessava solo non irritare gli iraniani, si è conclusa. Ora il leader russo deve ripensare la sua politica in Siria, dove si trova circondato da alleati Usa rassicurati, e la sua alleanza con Teheran.

All’indomani del raid, il segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha sottolineato che la Russia ha fallito nella sua responsabilità di far rispettare l’accordo del 2013 sullo smantellamento dell’arsenale di armi chimiche di Assad, quindi Mosca è stata “o complice o incompetente”. Un duro atto d’accusa che, come riporta il Times di domenica, Tillerson si prepara a portare direttamente a Mosca nella sua visita di martedì e mercoledì. “Questa settimana America e Gran Bretagna accuseranno direttamente la Russia di complicità nei crimini di guerra in Siria e chiederanno che Putin stacchi la spina al sanguinario regime di Bashar al-Assad”. Tillerson volerà a Mosca con “le prove che la Russia era a conoscenza” dell’attacco chimico di Assad e “ha cercato di insabbiarlo”. Militari russi erano presenti nella base da cui è partito l’attacco, un drone russo ha sorvolato la zona bombardata poco prima che un aereo di fabbricazione russa colpisse l’ospedale locale, verosimilmente per cancellare le prove dell’uso di armi chimiche. Insomma, i russi erano là, sanno cosa è successo, e stanno diffondendo una falsa versione per coprire non solo Assad, ma anche se stessi.

Ma nonostante le tensioni di questi giorni, non è ancora compromessa la possibilità di un dialogo costruttivo tra Washington e Mosca. Non solo i russi sono stati avvertiti dagli americani attraverso canali militari dell’attacco missilistico, ma all’indomani Washington si è affrettata a precisare che il raid non rappresenta l’inizio di una guerra contro Assad: nessun “regime change” e nessun cambio di politica in Siria. Nessun bis del catastrofico intervento obamiano e clintoniano in Libia. Come ha ribadito Tillerson alla Cbs, “è importante che le nostre priorità restino chiare” e la “prima priorità” per gli Stati Uniti in Siria resta distruggere l’Isis, un obiettivo che precede anche la stabilizzazione del Paese. Solo in un secondo momento si potrà aprire il processo politico per la Siria e gli Stati Uniti “sperano che la Russia scelga di giocare un ruolo costruttivo”. Non ora, ovviamente (prima c’è, appunto, da distruggere l’Isis), ma la sorte di Assad sembra segnata. Nessuna soluzione politica sarà possibile in Siria fino a quando Assad resterà al potere, ha ribadito l’ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, Nikki Haley, in un’intervista alla Cnn. “Non c’è alcuna opzione che prevede una soluzione politica con Assad a capo del regime. Se si guarda alle sue azioni, se si guarda alla situazione, sarà difficile vedere un governo pacifico e stabile con Assad”. Ma detto questo, si tratta di un esito a cui arrivare al termine di un processo politico. Anche Nikki Haley infatti ha chiarito quale debba essere per Washington la tempistica. “Primo, sconfiggere l’Isis. In secondo luogo, non vediamo una Siria pacifica con Assad. In terzo luogo, occorre tenere fuori l’influenza iraniana”. Ma non è detto, è tra le righe il messaggio di Washington a Mosca, che l’uscita di scena di Assad avvenga a scapito di interessi e influenza della Russia in Siria.

Da parte russa, il sistema di difesa anti-aerea dislocato in Siria non ha intercettato i tomahawk americani (e poco prima il portavoce del Cremlino aveva definito “non incondizionato” l’appoggio russo ad Assad). Nelle reazioni all’attacco Mosca si è limitata alle condanne verbali e all’annuncio di sospensione della “deconfliction line”, il canale di comunicazione militare aperto per evitare incidenti durante le operazioni in Siria (anche se al Pentagono non risultano richieste ufficiali in tal senso dai russi). Non è stata nemmeno annullata la visita a Mosca del segretario di Stato Tillerson in programma martedì e mercoledì.

Se dopo aver elaborato il “lutto”, al Cremlino afferrano il messaggio (se capiscono cioè che i loro interessi e la loro influenza in Siria non devono essere per forza legati alla sorte di Assad, che in ogni caso è al capolinea, o allineati a quelli iraniani), il rapporto con Putin non è finito prima di cominciare. Ora sì – dimostrato che l’America è tornata, che intende difendere il suo status, e che l’amministrazione Trump fa sul serio – può iniziare il vero confronto con Mosca. La necessità di trovare un nuovo equilibrio, un accordo generale, tra Stati Uniti e Russia, resta una priorità sia per Putin, che per Trump. Senza Mosca è impossibile una soluzione al caos siriano. E Putin sa che senza Washington non otterrà lo status che cerca per la sua Russia.

Chi si aspettava, sia tra i fan di Trump sia tra i suoi detrattori, che il tentativo di normalizzazione dei rapporti con Mosca partisse con qualche concessione, per esempio cancellando le sanzioni, si sbagliava di grosso. Bush e Obama hanno iniziato la loro presidenza offrendo “carote” a Putin, apertura di credito e concessioni, ma nei loro ultimi giorni entrambi si sono trovati quasi in guerra con Mosca. Trump, viceversa, sta iniziando quasi una guerra e chissà, forse avrà miglior fortuna agitando il “bastone”… La Russia, aveva spiegato il segretario di Stato Tillerson nella sua “confirmation hearing” al Senato, “ha bisogno di vedere una risposta forte prima di considerare un passo indietro”.

In ogni caso, come fa notare Robert Kagan sul Washington Post, ci vorrà molto di più per rimediare ai disastri di Obama in Siria, per arrestare la progressiva caduta dell’influenza americana in Medio Oriente. “Trump non aveva torto nell’incolpare il presidente Obama per la catastrofica situazione in Siria”. Grazie alle politiche delle amministrazioni Obama, infatti, “la Russia ha progressivamente soppiantato gli Stati Uniti come principale potenza nella regione. Anche alleati storici come Turchia, Egitto e Israele hanno guardato sempre più verso Mosca come rilevante player regionale”. E l’accordo per lo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco, di cui i russi si sono fatti garanti, non solo non ha impedito ad Assad di gasare donne e bambini, ma ha aperto le porte all’intervento russo che ha salvato il regime di Assad dal possibile crollo e aumentato l’influenza politica e militare di Mosca in Medio Oriente. “Le politiche di Obama – scrive Kagan – hanno anche reso possibile un’espansione senza precedenti dell’influenza e del potere iraniano. Se si aggiunge il devastante impatto del flusso di profughi siriani sulle democrazie europee, le politiche di Obama non solo hanno consentito la morte di quasi mezzo milione di siriani, ma hanno anche significativamente indebolito la posizione globale dell’America e la salute e la coesione dell’Occidente”.

Gli avversari dell’America, Russia, Iran e Cina, continueranno a sfidare la risolutezza dell’amministrazione Trump. Se l’attacco di venerdì notte non resterà un atto isolato, ma “il primo passo di una coerente strategia politica, diplomatica e militare”, conclude Kagan, c’è una “reale chance di invertire la rotta della ritirata globale cominciata da Obama”.



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