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Come si articola la galassia jihadista

Di Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte
trump stato islamico, isis, al qaeda

Parigi, Bruxelles, Orlando, Nizza, Berlino, Londra, Stoccolma, le città occidentali sotto attacco: nel Vecchio continente, così come negli Stati Uniti, cresce il timore di attentati. A partire dall’attacco alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo nel gennaio 2015, passando poi per quelli coordinati compiuti in più punti di Parigi in una sera del novembre 2015 e di Bruxelles in una mattina del marzo seguente, e terminando con quello stillicidio di atti di terrorismo che da allora hanno provocato una scia di sangue più o meno ampia, arrivata fino agli Champs-Elysées, si rileva come il livello di tensione sia rimasto costantemente alto.

La quotidianità dei cittadini ha subìto dei condizionamenti inevitabili. In molti si domandano chi sia ad attaccarci e perché lo faccia, e i più aspettano la caduta delle ultime roccaforti nel teatro siro-iracheno dell’autoproclamato Califfato per sentirsi fuori pericolo. Ma al di là delle minacce provenienti dalla propaganda dei vari gruppi jihadisti, da dove viene il rischio reale di subire attentati? Si tratta veramente di lupi solitari come da più parti si sente dire o siamo dinanzi a qualcosa di pianificato da uno o più gruppi jihadisti? E la fine dello Stato islamico coinciderà con la fine degli attentati? Le risposte a queste domande sono più complesse di quanto si possa immaginare, ma analizzando le strategie di comunicazione dei principali gruppi si riesce a risalire a esse.

È innanzitutto necessario premettere che, per spiegare le ragioni profonde di questa nuova ondata di attentati in Occidente, dobbiamo guardare al riaccendersi, all’interno del mondo islamico, dei suoi storici conflitti (tra sunniti e sciiti, e all’interno del mondo sunnita) in seguito a quelle che in molti hanno impropriamente definito primavere arabe. Dobbiamo considerare che a essere al centro degli attacchi del terrorismo non sono le nostre città, ma quelle mediorientali, ove i morti per attentati sono migliaia, e di fatto noi siamo coinvolti per il ritorno mediatico che un attacco in Occidente produce all’interno della cosiddetta galassia jihadista, dal 2013 polarizzata intorno ad al-Qaida (Aq) e all’Islamic state (Is).

Si tratta di uno scontro per la leadership tra al-Zawahiri e al-Baghdadi, che si gioca essenzialmente su due piani: quello dei gruppi locali che giurano fedeltà all’uno o all’altro, e quello dei singoli giovani che, anche in occidente, decidono di unirsi ad Aq o a Is, che ha peraltro abbracciato una sorta di campagna acquisti che, rompendo i rigidi schemi chiesti da sempre dall’organizzazione fondata da bin Laden, permette a qualsiasi gruppo terrorista e a qualsiasi giovane presti giuramento e passi all’azione, di esser considerato un soldato del Califfato. Per far ciò, il giovane può andare a combattere nelle terre del Califfato o commettere, con qualsiasi metodologia, un attentato nel Paese occidentale dove vive e dove spesso è nato.

Ecco che Is sta così promuovendo quel terrorismo “fai da te” che era nato per volere dell’imam con doppio passaporto statunitense e yemenita al-Awlaki, leader di quell’ala di al-Qaida nella penisola arabica che, attraverso la rivista Inspire, sin dal 2010 aveva abbracciato la strategia anti-occidentale – allora soprattutto anti-americana – volta a promuovere attacchi in occidente realizzati da giovani homegrown terrorist, radicalizzati e addestrati direttamente a casa, senza viaggi in Medio Oriente. Con Is e la sua importante rete mediatica (costituita da canali televisivi e radiofonici e decine di quotidiani e mensili distribuiti online in tantissime lingue) questo terrorismo “fai da te” ha visto una crescita esponenziale ed è oggi promosso e sfruttato tanto da Aq quanto da Is. Si deve precisare, tuttavia, che a differenza del gruppo di al-Zawahiri, che rivendica solo importanti e mirati attentati realizzati dai suoi uomini (si pensi a quello a Charlie Hebdo) e in genere loda qualsiasi attacco compiuto in nome del fenomeno jihadista, Is, per farsi pubblicità, chiede ai giovani che vogliono commettere un atto terroristico di giurare pubblicamente fedeltà al Califfato e rivendica qualsiasi attentato come compiuto da un soldato del Califfato, anche quando manca un legame diretto, prestando solo attenzione che tale legame non sia con Aq, per non screditare l’organizzazione.

Sulla base dell’imponente materiale mediatico messo in Rete, è possibile classificare le tipologie di questo terrorismo “fai da te”, definito come quel terrorismo messo in pratica in modo più o meno autonomo, in Occidente, da giovani homegrown terrorist radicalizzatisi e addestratisi sempre in occidente o da foreign fighter di ritorno da teatri di crisi. Analizzando tutti gli attacchi commessi in Europa e negli Stati Uniti negli ultimi due anni e mezzo, sono essenzialmente tre le tipologie di attacchi: diretti o quantomeno coordinati da Aq o Is, seppur con ampia autonomia nella scelta degli obiettivi e nella fase realizzativa; semplicemente ispirati da Aq o Is, ma nei quali c’è un contatto almeno informatico tra gli attentatori e qualcuno delle due organizzazioni centrali; esclusivamente ispirati da Aq o Is. Nella prima categoria, quelli diretti o quantomeno coordinati da Aq o Is, rientrano ad esempio gli attacchi di Parigi del novembre 2015 e di Bruxelles del marzo 2016.

Si è trattato di attacchi complessi e coordinati, compiuti quasi contemporaneamente in più punti della città da cellule composte da decine di ragazzi, che per mesi hanno agito spostandosi tra il Belgio (ove avevano la loro safe zone) e la Francia, compiendo anche altri attacchi di portata più limitata. Gli attentati di Parigi e Bruxelles furono immediatamente rivendicati attraverso organi mediatici ufficiali di Is, con rivendicazioni ricche di dettagli, che andavano ben oltre quello che si poteva sapere leggendo i giornali. Entro pochi giorni, Is diffuse foto degli attentatori in mimetica per mostrare la loro presenza nelle terre del Califfato nei mesi precedenti. Dal numeroso materiale reperibile online, emerge come si sia trattato di attacchi condotti da cellule composte da foreign fighter di ritorno e homegrown terrorist, spesso a essi legati da rapporti di parentela o amicizia, coordinati da Is tramite la sua agenzia per le azioni esterne Emni, il cui compito è quello di inviare dei foreign fighter indietro in Europa per reclutare e addestrare altri giovani, con cui portare a termine attacchi che godono, nella fase realizzativa, di un elevato grado di autonomia – circostanza che talvolta limita, fortunatamente, il numero delle vittime a causa di errori nella scelta di obiettivi, tempi e modalità operative. Nella categoria degli attacchi ispirati da Aq o Is, ma nei quali c’è un contatto almeno informatico tra gli attentatori e l’organizzazione terrorista, rientrano la maggior parte degli attacchi commessi in Europa nell’ultimo anno (con un picco tra giugno e luglio 2016 dopo l’invito dell’allora portavoce di Is, Adnani, a colpire durante il Ramadan dopo aver pubblicamente giurato fedeltà al Califfato).

Si tratta di azioni rivendicate dall’agenzia stampa Amaq, molto vicina a Is, con brevi comunicati, privi di qualsivoglia particolare, nei quali è affermato che “secondo una fonte” e “in risposta alla chiamata” ha agito “un soldato del Califfato”. Normalmente, a tali rivendicazioni segue entro un paio di giorni la diffusione, sempre da parte di Amaq, di video in cui gli attentatori prima di entrare in azione giurano fedeltà al Califfato. Infine, la terza categoria è composta da quegli attacchi esclusivamente ispirati ad Aq o Is.

Tra di essi troviamo uno dei più sanguinosi, quello compiuto con un tir sul lungomare di Nizza la sera del 14 luglio 2016, che è stato sfruttato da Is con una rivendicazione di Amaq diffusa due giorni dopo, ma in un certo senso rivendicato anche da Aq (tramite un numero speciale della citata rivista Inspire, la prima che sin dal 2010 aveva indicato l’utilizzo di potenti veicoli in aree pedonali come modalità d’azione). Alla luce di quest’analisi, è chiaro che raramente siamo di fronte a veri lupi solitari, mentre è spesso presente un legame con un gruppo jihadista. Ma si tratta normalmente di un legame molto debole, spesso solo nominale: come emerso anche da alcuni diari e da altro materiale ritrovato nei computer degli attentatori, per i giovani autori del terrorismo “fai da te” è il più delle volte irrilevante agire in nome di Aq o di Is, o di un jihadista considerato autorevole.

Essi vivono in occidente, sono fuori dalle lotte di potere che costituiscono la motivazione principale della spaccatura tra chi è fedele ad al-Zawahiri e chi ha scelto di seguire al-Baghdadi: questi giovani, divisi tra due mondi e a loro giudizio da entrambi non pienamente accettati, vogliono solo trovare un’identità e riscattare le proprie vite attaccando quelli che la propaganda jihadista addita come infedeli. Ne consegue che la caduta del Califfato e il ridimensionamento dell’imponente azione mediatica di Is non comporteranno la fine degli attacchi in occidente, così come non la comportò l’uccisione del suo ideatore, l’imam Awlaki, nel settembre 2011. È anzi probabile che il ritorno di un considerevole numero di foreign fighter farà aumentare questo fenomeno, che costituisce il vero rischio per le nostre città, mentre spesso le parole dei gruppi jihadisti sono solo minacce mediatiche.

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