L’attesa è spasmodica. In Florida, nel resort di Mar-a-lago, in questo fine settimana Cina e Stati Uniti, per la prima volta dall’elezione di Donald Trump, affronteranno dossier caldi che tengono il mondo con il fiato sospeso: dallo spionaggio informatico al nucleare in mano alla Corea del Nord, dal commercio internazionale al neo protezionismo che vuole mandare per aria i benefici della globalizzazione. Se tutto o quasi si conosce degli uomini che tessono la diplomazia a stelle e strisce a partire dal segretario di Stato Rex Tillerson – che ha dovuto mettere una pezza all’improvvida intervista del suo presidente al Financial Times (“Se la Cina non risolverà il problema Corea del Nord lo faremo noi”), poco o nulla si conosce dell’entourage del presidente cinese Xi Jinping.
La squadra di Xi è stata raccontata però da una serie di articoli del South China Morning Post, quotidiano economico in lingua inglese pubblicato ad Hong Kong di proprietà cinese e che ben conosce i giochi di potere all’interno della nomenklatura del Partito Comunista Cinese. Al punto che il vero fautore della bilaterale più attesa della storia non è il ministro degli Esteri, Wang Yi, come si potrebbe erroneamente pensare, ma il consigliere di Stato con la delega agli Affari Internazionali, Yang Jiechi.
È questo minuto sessantasettenne a guidare gli sherpa cinesi che hanno consigliato a Xi di fare comunque al più presto la bilaterale con gli Stati Uniti che è vista sì come “un appuntamento al buio” ma che “non potrà che essere un successo”. Già ministro degli Esteri e ambasciatore proprio negli Stati Uniti dal 201 al 2005, Yang è comunque considerato un falco della diplomazia cinese, ad esempio considera come “irrevocabili i diritti di Pechino nel mar cinese meridionale” dove sono state costruite delle isole artificiali da cui passano ogni anno 5mila miliardi di dollari di merci e, soprattutto, se militarizzate queste isole rischiano di essere un pericolo per gli alleati degli States, a partire dal Giappone.
Ciò che teme Yang però è l’imprevedibilità di Donald Trump. Un modo di fare che i cinesi proprio non riescono a comprendere perché non rientra nel loro modo di fare politica. Per questo Pechino sarebbe disponibile ad un’apertura verso le richieste americane a partire dal tema Corea del Nord. È la tesi del braccio destro di Xi, Wang Huning, il consigliere del Presidente per la politica interna. Una specie di Kissinger in salsa cinese convinto che sia necessario riprendere i colloqui (interrotti dal 2009) con la Corea del Nord per spingere verso la denuclearizzazione: Pyongyang deve interrompere ogni test missilistico ma, al contempo, altrettanto devono fare Stati Uniti e Corea del Sud per quanto riguarda esercitazioni e approntamenti militari.
Altro uomo di fiducia, di cui il presidente Xi non può fare a meno e che avrà un ruolo guida nel summit in Florida è senza dubbio Li Zhanshu, dal 2012 direttore generale del Partito Comunista Cinese. Un uomo cresciuto interamente nell’apparato comunista, dove è entrato nel lontano 1975, governatore negli anni di molte province cinesi tra cui quella del Dragone Nero, Heilongjiang, nel nord est del paese. Attualmente è lui che tiene i contatti con la Russia di Vladimir Putin, insomma colui che deve cercare l’equilibro tra la nuova Cina, più aperta al mercato e agli investimenti stranieri e l’ortodossia di partito che non vuole invece eccessive aperture.
Infine un ruolo di primo piano nella stesura dei dossier tra le due super potenze va riconosciuto a Cui Tiankai, ambasciatore cinese a Washington. È stato lui l’artefice, nel febbraio scorso, della prima telefonata tra Donald Trump e il presidente Xi, quella del disgelo seguita all’uscita di Trump che aveva messo in discussione la politica “di una Sola Cina” a seguito delle sue aperture alla presidente del Taiwan Tsai Ing-wen che reclama l’indipendenza dell’isola.
Un passato da insegnante di storia all’Università di Shanghai, dove ha pure studiato, ha intrapreso la carriera diplomatica dopo un master alla Johns Hopkins University di Baltimora nel Maryland. Prima di diventare ambasciatore negli Stati Uniti (nel 2013) lo è stato in Giappone, altro stato con cui Pechino ha non pochi problemi che affondano nella storia recente anche se il Giappone ha bisogno del vasto mercato cinese e della sua classe media per sostenere il suo export e la Cina ritiene ancora indispensabili investimenti e tecnologie giapponesi e il sofisticato mercato nipponico. Toccherà a Cui Tiankai, il più giovane del team di Xi, occuparsi di quei “formalismi diplomatici” che però sono dogmi imprescindibili per i cinesi. Ad esempio se il summit in Florida si chiudesse senza una stretta di mano tra i due leader – cosa che ad esempio ha negato Trump alla cancelliera Merkel durante la sua visita lo scorso 17 marzo – questo sarebbe un affronto simile ad una dichiarazione di guerra.
Anche da questi gesti insomma si misurerà la volontà di Trump di aprire una nuova pagina con Pechino. Perché una stretta di mano, in teoria, non si dovrebbe negare a nessuno. Tanto meno all’irascibile Dragone cinese.