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Perché Alitalia perde e le altre compagnie aeree guadagnano?

Le compagnie aeree hanno convinto perfino Warren Buffett. Il mitico investitore americano, dopo anni passati a definire le azioni delle linee di trasporto aereo «una trappola per investitori», ha nei mesi scorsi acquisito importanti partecipazioni (si parla di 10 miliardi di dollari totali) nelle quattro principali compagnie statunitensi. Perché questo repentino cambio di idee da parte dell’Oracolo di Omaha? Se si guarda ai numeri la realtà è che, dopo quello che lo stesso Buffett ha definito con ironia «finanziariamente un pessimo secolo», da qualche anno le linee aeree hanno iniziato a fare utili. E non pochi. Mentre in Italia si discute sul piano per salvare Alitalia da una nuova bancarotta, nel resto del mondo diverse compagnie hanno iniziato a macinare profitti miliardari. Secondo i dati contenuti nell’outlook annuale della International Air Transport Association (Iata), i vettori di tutto il mondo hanno realizzato complessivamente 35,5 miliardi di dollari di utili, trasportando 3,7 miliardi di passeggeri. L’unico continente al mondo dove il business del trasporto nei cieli è in perdita è l’Africa.

COSA DICE IL REPORT IATA

Le ragioni di questa nuova redditività sono quattro. La prima, e più vistosa è il crollo del prezzo del petrolio negli ultimi anni, che ha comportato un risparmio enorme per i vettori aerei. Ad esempio nel 2015 il carburante ha pesato per 7,5 miliardi di dollari nel bilancio dell’americana Delta Airlines (quasi il 25% dei costi totali), mentre nel 2016 il costo del pieno per i jet è calato a 6 miliardi. A livello aggregato mondiale si è passati dagli oltre 220 miliardi di del 2014 ai 124 miliardi di dollari del 2016. Quasi la metà. In secondo luogo la specializzazione in modelli di business ben definiti. Sempre meno compagnie aeree possono essere definite «generaliste». Da una parte ci sono gli operatori low-cost, concentrati sulle tratte brevi, sul contenimento dei costi e l’aumento del volume di passeggeri, dall’altro gli operatori a largo raggio, focalizzati più sull’aumento della spesa media per cliente.

FATTORE AGGREGAZIONI

Una specializzazione che ha portato il tasso di occupazione ad aumentare dal 2008 ad oggi di oltre 5 punti. Terzo elemento, le economie di scala. Negli ultimi dieci le compagnie aeree hanno dato vita ad un importante ciclo di aggregazioni. Gli effetti si sono fatti sentire in particolar modo negli Stati Uniti, dove le prime quattro super-compagnie (American, Delta, Southwest e United Continental) trasportano tutte ogni anno più del triplo dei passeggeri della quinta linea del paese: Alaska Airlines. Gli effetti si sono visti anche in Europa, in particolare con la fusione British Airways-Iberia, che ha dato vita a International Airlines, un gigante da 22,5 miliardi di fatturato e quasi due miliardi di utile. Un processo che ha consentito marginalità impensabili nei momenti più duri per il business del trasporto aereo, lo scorso decennio: quasi il 10% di utili sui ricavi a livello globale. Le compagnie più piccole che non hanno trovato una nicchia o non si sono aggregate sono, semplicemente, fallite.

COSA SUCCEDE NEGLI USA

La scia di fallimenti e bancarotte di cui è stata costellata la storia delle compagnie aeree negli ultimi decenni spiega bene la diffidenza di molti investitori. Spiega anche lo sconto a cui viaggiano le linee aeree in Borsa. Negli Usa Delta, American e United scambiano tutte a un prezzo di 7-9 volte gli utili, contro la media di 21,5 volte dell’Indice S&P 500. Se la cavano meglio le low-cost: Southwest negli Usa e Ryanair in Europa scambiano entrambe a circa 14,7 volte i loro profitti. Valutazioni ancora più basse per le due vecchie ex-compagnie di bandiera di Francia e Germania: poco più di 4x di price/earning. Non si tratta di due casi isolati. La situazione delle linee aeree europee è mediamente meno felice delle loro sorelle a stelle e strisce.

I PROBLEMI COMUNI

Brexit, l’incertezza politica e una crescita economica ancora ridotta rispetto agli Usa hanno penalizzato la crescita dei ricavi, ma i problemi sono anche altri, sul lato costi. L’Atlantico è infatti ancora largo, non solo per il costo del lavoro, che viene indicato da più analisti come uno dei punti deboli delle compagnie aeree europee, ma anche per l’apparente inefficienza dell’infrastruttura che regola il traffico nei cieli del Vecchio Continente. Secondo i dati diffusi dalla Iata, infatti, le inefficienze dell’infrastruttura europea di gestione del traffico aereo sono costate ai vettori del Vecchio Continente 2,77 miliardi di dollari nel 2016. Questo si traduce in marginalità inferiori per le compagnie aeree europee, che a fronte di un fatturato simile a quello delle americane realizzano meno della metà dei profitti aggregati: 7,5 miliardi di dollari rispetto 20,3 miliardi. Non a caso negli ultimi 12 mesi i vettori europei si sono mossi in ordine sparso sui mercati: dal +18% di Ryanair al -22% di EasyJet, passando per le quasi invariate AirFrance-KLM e International. Negli Stati Uniti la performance è decisamente migliore: American e Southwest hanno segnato entrambe un +18%, mentre United Continental, nonostante il recente scandalo vale quasi il 38% in più di un anno fa. Non è solo Buffett ad aver fiutato l’affare delle linee aeree.

(Articolo pubblicato su Mf/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)


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