La lingua batte dove il dente duole. I lettori di questa rubrica mi perdoneranno, ma sono costretto a ripetere quanto ho già scritto in altre occasioni. Non voglio parlare dell’affaire Etruria. In uno Stato di non diritto, qual è ormai il Paese, vige ormai l’inversione dell’onere della prova. L’accusata, Maria Elena Boschi, è stata già messa alla gogna perché intrigante e bugiarda, mentre all’accusatore (che pur si dichiara certo delle sue fonti), Ferruccio De Bortoli, non si chiede uno straccio di prova delle sue ricostruzioni (che si sono rivelate farlocche già una volta, nel caso Marco Carrai-Mps).
Voglio invece parlare dell’assoluzione in appello di Renato Soru, condannato in primo grado a tre anni per evasione fiscale. Nell’intervista ad Annalisa Chirico (il Foglio di oggi), l’ex governatore della Sardegna ricorda il post ingiurioso dedicatogli dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio: “Si rende conto -dice Soru- che cosa vuol dire essere trattato come un mafioso da una persona che rappresenta una istituzione? L’ho querelato, poi lui mi ha chiesto di ritirare la denuncia e alla fine e alla fine l’ho accontentato. Non mi ha mandato neppure un sms di auguri dopo l’assoluzione [corsivo mio]”. Tuttavia resto convinto -prosegue Soru- che “trale degenerazioni dei nostri tempi, insieme alle fughe di notizie e al protagonismo di certi magistrati, si annoveri pure l’uso politico della giustizia, un male contemporaneo”.
Solo chi ha vissuto sulla propria pelle un torto drammatico poteva essere essere così chiaro. Infatti, discutiamo di Parlamenti, elezioni, partiti come se fossero ancora i pilastri della vita politica. Non è più così. In Italia il gioco democratico è ormai regolato da un potere di corpo che trascende il circuito del voto: la magistratura. Insieme ai media e al web, la magistratura è ormai il colosso di una costituzione silenziosa in grado di trasformare le organizzazioni più solide in una cricca di malfattori. Essa, al contrario, resta intoccabile. Pena il rischio che venga messo in questione il tabù della sua autonomia.
È vero, non mancano le accorate considerazioni sulle lungaggini e sulle inefficienze dell’iter giudiziario. Senza però che i loro costi -sociali, economici, umani- varchino mai la soglia del piagnisteo impotente e della altrettanto inconcludente vaga proposta di riforma. Se non intervengono le manette, il politico, l’amministratore o il manager sotto accusa entrano nel cono d’ombra di un cammino processuale di cui si perderanno rapidamente le tracce. Salvo tornare -ma molto più marginalmente- sui giornali nel momento della condanna definitiva o, più spesso, del proscioglimento. Ne sanno qualcosa, solo per citare i casi più noti, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Antonio Bassolino, Vincenzo De Luca, Stefano Graziano, Ilaria Capua, Ottaviano Del Turco e da ultimo, appunto, Renato Soru. Di fronte a risultati così deludenti, non sorprende che la magistratura tenda a privilegiare -nella scelta dei suoi obiettivi politici- personalità di maggior calibro istituzionali. Adesso sotto tiro ci son le Ong che soccorrono i migranti.
Del resto, siamo in un’epoca in cui l’apertura di un fascicolo o un avviso di garanzia non si nega a nessuno, soprattutto se aspira a una poltrona di sindaco, di governatore, di ministro. E, mentre pm e giudici azzoppano il potere esecutivo, Consulta, Cassazione e Consiglio di Stato esautorano di fatto il potere legislativo. In questa palude melmosa sguazzano il populismo giudiziario, i verdetti emessi dal tribunale della Rete, la tentazione che la “gente” si faccia giustizia da sola. Questa è oggi la nostra realtà repubblicana. Confesso che qualche volta mi vergogno di essere italiano.