Non sempre la forza riesce lì dove è fallita la ragione. Il nuovo tentativo dell’opposizione venezuelana di mettere con le spalle al muro l’infausto governo del presidente Nicolas Maduro con la mobilitazione di piazza è fallito. E i 36 morti e 800 feriti lasciati in poche settimane sulle strade dalla repressione poliziesca che ha anche arrestato quasi 2mila persone, non bastano a spegnere la protesta che, sebbene animata soprattutto dalla classe media urbana, non cessa di essere popolare. Tragicamente pericolosa – come l’ha definita papa Francesco che la segue da vicino -, la situazione a Caracas allarma più che mai i Paesi d’entrambi gli emisferi americani. Nelle città scarseggiano generi alimentari e medicinali, nelle campagne è anche peggio.
Sostegno decisivo del sistema di potere instaurato dal colonnello Hugo Chavez un ventennio fa, l’esercito è ormai ad un tempo fattore di crisi e però anche il garante di servizi essenziali, dalle forniture d’acqua potabile ed elettricità, ai trasporti e a un minimo d’ordine pubblico, l’ultima barriera contro il caos. Disperato, Maduro cerca una via d’uscita forzando grossolanamente la Costituzione nazionale, formulata e voluta dal suo stesso regime nel 1999. L’opposizione è divisa tra moderati ed estremisti, molti dei quali eredi e responsabili politici dell’arretratezza sociale che portò il Venezuela alla bancarotta istituzionale, e di cui il chavismo è stato l’effetto più clamoroso, non la causa.
L’enorme ricchezza del petrolio non è mai stata sufficiente ad assicurare al Venezuela un accettabile grado di sviluppo. Men che meno ora che i suoi prezzi internazionali sono precipitati. Dopo autoritarismi vari e un fascismo da caserma con il generale Perez Jimenez, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso la colta socialdemocrazia riformista di Romulo Gallegos ha favorito un certo benessere creando l’industrializzazione di base e l’espansione dei consumi. Ma nei decenni successivi è finita nel discredito per la corruzione e l’inefficienza crescenti che si sono via via impadronite dello Stato. Una sorte analoga ha travolto i social-cristiani, che le si sono alternati al governo. La sfiducia nella politica dei partiti ha lasciato mano libera ai militari.
Chavez giunge al governo attraverso le elezioni, dopo aver tentato un colpo di Stato non riuscito. Come ufficiale si è già distinto per le sue idee populiste di sinistra, ha un seguito fedelissimo nei reparti speciali e soprattutto tra i paracadutisti, ma nessuna esperienza politica vera. A lungo si lascia consigliare da un ingegnere elettronico italiano, laureato a Bologna ma nato a Santo Domingo da un esule antifascista che nel 1936 ha combattuto in Spagna contro i franchisti. È Jorge Antonio Giordani, studioso di Gramsci e del suo concetto di egemonia. La collaborazione (sempre agitata) va avanti una decina d’anni, poi i contrasti accumulati diventano troppi e il sodalizio si rompe. Giordani se ne va denunciando pubblicamente superficialità, prepotenze e corruzione.
Per convinzione o per necessità (probabilmente per entrambe), Chavez difende a spada tratta la burocrazia militare. Dice anzi che è il momento giusto affinchè l’alleanza esercito-popolo (le masse emarginate guidate da quadri civico-militari), divenga integrazione. Nel frattempo, infatti, Fidel Castro gli ha spiegato che grazie alla grande rendita petrolifera le Forze armate sono in grado di conformare il canale attraverso cui gli esclusi giungono infine a qualificarsi professionalmente e socialmente, partecipando ai benefici prodotti dall’oro nero. Partito con l’idea di riforme strutturali del sistema produttivo, l’audace colonnello ha dimenticato cammin facendo i rischi dell’eccessiva dipendenza dalla monocultura petrolifera.
Nella convulsa agenda venezuelana, il nodo gordiano del modello di sviluppo appare tuttavia oggi un problema sopravanzato da quello della governabilità del Paese. Il rischio di un definitivo collasso delle sue istituzioni è palese. Due anni fa Obama si era spinto a dichiarare la crisi di Caracas un pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti, oggi perfino l’avventuroso Trump tace, in attesa degli eventi. Dall’Organizzazione Stati Americani (Osa) alle discrete diplomazie del Vaticano e delle Nazioni Unite, il governo di Raul Castro dall’Habana, e un paio di Stati europei, premono, consigliano e scongiurano il governo di Maduro e le opposizioni di concordare almeno una tregua negli incontri previsti in questi giorni all’isola Margarita e a Caracas. A un passo dai loro piedi c’è il precipizio all’inferno.