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Beppe Grillo e Matteo Salvini, i demagoghi del Web e della Tv

Confesso che sono stanco di sentire la parola “popolo” pronunciata a sproposito dai demagoghi che ormai abbondano nel Belpaese. Infatti, quel termine rappresenta quanto di più ambiguo e sfuggente si possa immaginare, ed è stato esposto alle più disparate manipolazioni ideologiche. Provo, allora, a fare un po’ di chiarezza utilizzando un imprescindibile testo di Yves Mény e Yves Surel (Populismo e democrazia, il Mulino, 2001).

Gli autori individuano tre accezioni di popolo, corrispondenti a tre tipi di populismo. Nella prima accezione, che si può definire strettamente politica, il popolo è il “popolo sovrano”. In questo caso la polemica populista è rivolta contro le istituzioni della rappresentanza politica -in particolare i partiti- accusati di averne espropriato la sovranità. La legittimità del leader e dell’intero sistema politico viene contestata, i membri eletti sono accusati di tradimento della volontà popolare, e alla democrazia rappresentativa si contrappone una non meglio precisata democrazia diretta. Una visione che pone la dicotomia tra popolo e élite come fulcro della propaganda e dell’azione poltica di questa forma di populismo.

Nella seconda accezione, che Mény e Surel definiscono socioeconomica, il popolo è il “popolo-classe”. In questo caso, l’appello populista si rivolge non a tutti i cittadini (come nel caso precedente), ma a specifici settori della popolazione, come le “categorie socioprofessionali che si sentono minacciate dalla globalizzazione e dalla smaterializzazione dell’economia: i piccoli artigiani, i commercianti, gli operai o gli agricoltori, che per ragioni particolari si sentono vicini alla old economy…gli esclusi dai meccanismi socioeconomici, soprattutto i disoccupati”. Quelli insomma che qualcuno ha definito, con una felice espressione, i “perdenti della modernità”.

C’è, da ultimo, la terza accezione, definibile come culturale. In questo caso il popolo è il “popolo-nazione”, nel senso di comunità di appartenenza. Si tratta di una visione -scrivono Mény e Surel- nella quale “il populismo è confuso con un tipo particolare di nazionalismo, che insiste sul carattere irriducibile ed eterno della comunità organica…il popolo-nazione come unione ideale costruita dalla storia, dalla geografia e/o dal sangue”.

Strettamente connesso al popolo è il “nemico del popolo”. Questo nemico è diverso a seconda dell’accezione che lo specifico movimento populista in esame ha dato alla nozione di popolo. Se è il popolo-sovrano allora il nemico è il mondo della rappresentanza politica, sono i partiti, i politici di professione. Se è il popolo-classe allora i nemici sono le oligarchie economiche, i tecnocrati, i “plutocrati capitalisti”, il mondo della finanza internazionale. Se è il popolo-nazione allora i nemici sono i “diversi”, gli immigrati,i rom, i diseredati di ogni colore, dove la creazione della “minaccia esterna” (accompagnata a volte dall’attacco xenofobo e razzista) serve anche da collante per un popolo privo di identità, o con un’identità costruita a tavolino (come nel caso del “popolo padano”).

Infine il manicheismo connaturato all’universo culturale populista assume spesso i toni del fondamentalismo morale, in cui l’avversario politico diventa un “nemico”. Nella retorica populista il popolo è virtuoso e i nemici sono malvagi, c’è l’angelo contro il demonio. Pertanto la comunicazione populista irrompe nella dimensione immaginaria-affettiva e il leader assume i toni aggressivi del tribuno o quelli religiosi del profeta. Da qui la sua forza dirompente. Secondo Mény e Surel i partiti populisti fanno ampio uso del registro della provocazione. Il loro messaggio mira a traumatizzare, a scuotere: giochi di parole di dubbio gusto, attacchi personali, evocazioni sospette, volgarità gratuite distinguono gli attori politici del teatro populista. Tutti questi caratteri, ça va sans dire, si possono trovare in forma paradigmatica nella comunicazione di Matteo Salvini e di Beppe Grillo. É ben noto il loro linguaggio, dallo stile istrionico e febbricitante che non disdegna l’invettiva, il tono eruttivo e caricaturale.

È pressoché unanime l’opinione secondo cui i vari populismi hanno potuto affermarsi grazie all’avvento e alla diffusione dei mass media, i quali avrebbero reso superflua o marginale la mediazione dei partiti. Il medium principe al quale ci si riferisce è naturalmente la televisione (anche se nella prima metà del Novecento la radio ha avuto un ruolo importante), che ha gradualmente surrogato molte funzioni tradizionali dei partiti, dalla formazione dell’opinione pubblica alla stessa selezione della classe politica. A questo processo è stato dato il nome di “mediatizzazione” della vita politica. Poi si è aperta una vicenda inedita, ed è qui che si innesta la novità del Movimento 5 Stelle. Perché adesso ci sono i nuovi media, sinteticamente riassumibili nella Rete, che rappresenterebbero una vera rivoluzione politica, sociale e culturale. Internet moltiplica a dismisura le opportunità di prendere la parola su tutto, permettendo ai politici di interloquire direttamente con i cittadini. Il clic si sostituisce al voto, e il gioco è fatto.

 



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