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L’ombra del Russiagate sul caso Comey: cosa rischia Donald Trump

Donald Trump ha scatenato l’ennesima tempesta sulla sua presidenza quando, nella giornata di martedì 9 maggio, ha licenziato il direttore dell’FBI, James Comey. Un atto dovuto legato agli errori del funzionario pubblico, dice la Casa Bianca, se non fosse per il fatto che Comey stesse dirigendo in prima persona le indagini sul Russiagate, come viene comunemente chiamato, ovvero l’ingerenza russa nelle elezioni statunitensi.

Le email di Hillary Clinton. La versione ufficiale – resa nota dal Vice-Procuratore Generale Rod Rosenstein, per poi essere smentita quattro giorni dopo dallo stesso Trump – sostiene che Comey sarebbe stato licenziato a causa della sua penosa gestione del caso Hillary Clinton negli ultimi giorni della sua campagna presidenziale. Ancora nel 2014, infatti, la candidata democratica alle presidenziali 2016, viene posta sotto indagine per aver usato un server privato invece che uno governativo per conservare le proprie mail – personali o lavorative – durante il suo servizio come Segretario di Stato durante la prima amministrazione Obama. L’accusa era di poter controllare quali informazioni rendere pubbliche e, come ha sostenuto lo stesso Donald Trump in campagna elettorale, nascondere agli organi di controllo eventuali condotte “criminali”.

Il caso viene chiuso a giugno 2016 in tempo per la campagna presidenziale, ma viene riaperto, a sorpresa, proprio dal direttore dell’FBI James Comey, il 28 ottobre dello stesso anno, a poco più di una settimana dal voto, sulla base di “fantomatiche” nuove prove.  Il caso verrà poi archiviato nuovamente nel giro di pochi giorni, ma oramai, sostengono i Democratici, questo – assieme alla pubblicazione delle mail hackerate al Comitato Nazionale Democratico (DNC) – sarebbe costato a Hillary Clinton la Casa Bianca.

Il Russiagate. Nonostante la versione ufficiale possa avere la sua validità, molti fra Democratici, qualche Repubblicano, e gli stessi quadri dirigenziali dell’FBI, la ragione sarebbe un’altra: il Russiagate e le connessioni fra il governo russo e l’amministrazione Trump. Questo esplode subito dopo la vittoria di Trump con la rivelazione, condivisa da tutte le principali agenzie investigative statunitensi, che dietro la pubblicazione su WikiLeaks delle mail del DNC ci sarebbero i servizi di Intelligence russi. Essi, sostengono gli inquirenti, avrebbero agito – mediante diplomatici e lobbysti vicino al Ministero degli Esteri russo – in connessione con membri della campagna elettorale di Trump, alcuni dei quali sono ora in posti di governo.

Incaricata dell’indagine, è proprio l’FBI diretta da Comey, a cui, dopo poco tempo, si affianca una commissione investigativa del Senato. Lentamente, il cerchio attorno all’amministrazione Trump si stringe.

Il caso Comey. La bomba esplode il 20 marzo. Di fronte al Congresso degli Stati Uniti, James Comey afferma che le indagini dell’FBI interessano non solo “l’esistenza di rapporti di alcuni individui legati a Donald Trump e la Russia”, ma la possibilità di “un coordinamento politico fra il comitato elettorale repubblicano” ed il governo russo, allo scopo di influenzare la corsa presidenziale e danneggiare la corsa di Hillary Clinton. I documenti resi pubblici da WikiLeaks non sarebbero quindi solamente l’opera di pirati informatici al soldo dei russi, ma parte di una strategia coordinata allo scopo di rafforzare la campagna presidenziale di Trump improntata, non a caso, a discreditare l’avversaria.

Secondo quanto affermato da Comey, quindi, l’indagine dell’FBI riguarderebbe, se non direttamente dall’attuale Presidente, tutto il suo entorurage con la possibilità che questo abbia agito di concerto con una potenza straniera allo scopo di favorire l’elezione di Trump alla Casa Bianca. Pochi giorni dopo, la CNN – citando fonti interne al governo – rilancia: l’FBI sarebbe in possesso di documenti che legano direttamente Trump ad agenti operativi dell’intelligence russa con cui avrebbe concordato il rilascio delle nuove prove contro Hillary Clinton.

La rete russa attorno a Trump. Per l’amministrazione Trump il caso non sussisterebbe e sarebbe solo un prodotto di una campagna di “Fake News” pilotata dai “media progressisti”. Intanto, però, 18 giorni dopo l’inizio della presidenza, si dimette il Consigliere per la Sicurezza Nazionale, l’ex-generale Michael Flynn. L’accusa? Aver ricevuto pagamenti illeciti da agenzie controllate dal governo russo, prima fra tutte l’agenzia di stampa RT, ed essersi incontrato più volte durante la campagna elettorale con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergey Kizlyak.

Flynn – recentemente messo sotto accusa dal Senato – non è, però, il solo membro del Gabinetto Trump nell’occhio del ciclone. Nel mirino ci sarebbero, fra gli altri, uno dei principali consiglieri politici del Presidente, ovvero Carter Page, il figlioccio di Trump Jared Kushner ed il lobbysta e consigliere della campagna elettorale Paul Manafort. Quest’ultimo sarebbe, sostiene il magazine POLITICO, l’anello di congiunzione fra il team della campagna Trump, il governo russo e Julian Assange, il fondatore/direttore di WikiLeaks.

Il licenziamento. Passa ancora un mese e, infine, Donald Trump licenzia Comey, pochi giorni dopo la richiesta di quest’ultimo di ottenere ulteriori fondi per continuare l’indagine. Ad ispirare la decisione è ill Procuratore Generale Jeff Sessions, sotto la cui giurisdizione cade proprio l’FBI. Solo che lo stesso Sessions sarebbe indagato nel Russiagate. Egli, sostiene il Washington Post, avrebbe infatti mentito al Senato riguardo ai suoi incontri con i rappresentati del governo russo durante la campagna elettorale. Per questo, sempre a marzo, Sessions è costretto ad abbandonare la supervisione del processo investigativo, ricusando se stesso in qualità di parte in causa.

Il paradosso è che con il licenziamento di Comey, proprio Sessions riacquista il controllo dell’inchiesta indagini, che si trova, quindi nella condizione di controllare le indagini su se stesso e sul suo “capo”: il Presidente degli Stati Uniti.

Le reazioni al Senato. Inizialmente pochi fra gli scranni del congresso si muovono in difesa di Comey, ma il ricordo del caso Clinton sparisce in fretta e i Democratici partono all’attacco del governo sottolineando l’inopportunità di licenziare “colui che sta indagando su di te”.

Per il Senatore Patrick J. Leahy, infatti, la versione ufficiale che lega il licenziamento al caso Clinton non sarebbe che una “foglia di fico” atta a nascondere la verità: menomare un’indagine che potrebbe danneggiare severamente l’amministrazione. Il licenziamento sarebbe il risultato di un “abuso di potere” e l’unica soluzione, a fronte delle nuvole che aleggiano su Trump, Sessions ed il governo, sarebbe di istituire un Procuratore Speciale, ovvero un magistrato non connesso al governo, e come tale, libero di investigare in maniera indipendente, opzione supportata da tutto il fronte dei Democratici.

Per ottenerla i Democratici hanno già cominciato a rallentare i lavori del Senato, luogo dove la maggioranza repubblicana rimane risicata. L’opzione finale sarebbe quella “nucleare”, ovvero bloccare completamente il Senato, in una sorta di sciopero fino alla nomina di un Procuratore, come chiesto a gran voce dagli attivisti liberal fuori dal congresso. Il fine ultimo è abbastanza chiaro: arrivare a mettere sotto accusa lo stesso Presidente per costringerlo alle dimissioni o portarlo all’impeachment.

La frattura dei Repubblicani. In ogni caso, i Democratici avranno bisogno dell’appoggio dei Repubblicani. Fra loro, nonostante una nutrita maggioranza rimanga ancora schierata ad oltranza in difesa del Presidente, molti si sono dichiarati contrari al licenziamento di Comey, considerandolo immotivato o, in alternativa, effettuato con un “timing” sospetto. La speranza dei Democratici e questo disappunto si traduca in voti contro il governo. Sicuramente, l’idea di un Procuratore Generale, considerata da Trump una “follia” dei Democratici, potrebbe ricevere un inaspettato supporto bipartisan, anche se solo parziale.

Le analogie col Watergate. Si tratta di un nuovo Watergate? Anche quello scandalo, che portò l’allora Presidente Richard Nixon a dimettersi, nacque durante le elezioni e, come questo, si trascinò per mesi prima di esplodere e mettere in crisi il governo. In quel caso, a far esplodere il caso fu il “Massacro del Sabato Sera”, il giorno in cui Nixon – suscitando lo sdegno dell’opinione pubblica – fece dimettere due Procuratori Generali perché si rifiutavano di licenziare il Procuratore Speciale che indagava sul caso.

L’amministrazione Trump sembrerebbe aver preso la stessa strada di quella Nixon ed il “Massacro del Martedì Sera”, come l’hanno ribattezzato già i giornali, pensato per “salvare” la faccia alla Casa Bianca, potrebbe risultarle fatale.

Certamente, sostiene dalla Germania l’autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung, il caso Comey sarebbe l’ennesimo colpo di Trump alla democrazia statunitense.

 

Pubblicato originariamente dall’autore su: il Caffè e l’Opinione.

 


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