Il 30 aprile 2017 si sono tenute le primarie del Partito Democratico (PD) dalle 8 alle 20, in Italia, come nel resto del mondo. Ho atteso fino ad oggi per azzardare un’analisi perché i dati ufficiali ancora non sembrano esserci. Tutto si basa su informazioni abbastanza parziali. Ma secondo analisi e dirigenti del partito i dati ufficiosi possono essere considerati ufficiali (questa cosa la chiamo, non serietà), ma ci sono già dei distinguo. Al netto di questo: le primarie restano un bell’esempio di partecipazione, mobilitazione e democrazia. Sicuramente da migliorare. Ma tutto è migliorabile.
All’estero, per esempio, dove i dati definitivi ci sono, notiamo una netta contrazione della partecipazione: se nel 2013 parteciparono oltre 16.000 persone, oggi solo 11.549, una flessione del 30% circa, pari a quasi 5.000 voti. In Italia, invece, rispetto al 2013, quando votarono circa 2.9 persone, la flessione è del 36% circa. Il 30 aprile hanno votato, infatti, 1.848.658 milioni di persone.
La prima riflessione da fare è quindi sulla partecipazione di elettrici ed elettori a queste primarie: un calo netto, in linea con il trend negativo degli ultimi 8 anni, accentuato a partire dal 2013. Il PD ha perso una consistente fetta di elettorato, e non c’è da sorprendersi: l’emorragia è iniziata già nel 2015, all’indomani delle europee, e si è consolidata il 4 dicembre, con la cocente sconfitta del Referendum Costituzionale.
Malgrado tutto, il dato sembra passare un po’ in sordina, vuoi perché l’asticella delle aspettative era stata collocata assai in basso (per Renzi, infatti, poco più di 1 milione di persone sarebbe stato un successo), vuoi perché non si vuole appannare l’alone di successo che ora circonda il leader e il suo entourage. Ma questo è un approccio assai miope, espressione di una brutta deriva autoreferenziale.
Ma li possiamo girare come vogliamo: trasformiamo una perdita di 1 milione di elettrici ed elettori in un gran successo di partecipazione, semplicemente perché ci paragoniamo ai 1000 click del blog di Grillo. E continuiamo a non guardare in faccia la realtà. Un partito che ha una “vocazione maggioritaria” e che vuol essere “pop” dovrebbe sobbalzare per questa poderosa contrazione di consenso. Ma il problema è un altro: non si parla di comunità, non si parla di progetti, si parla di esprimersi a favore o contro il successo (o la rivincita) del leader ammaccato e usurato da tre anni di governo, una collezione di sconfitte politiche senza precedenti, e ben due scissioni interne che a dispetto delle ironie di molti, sono costate al PD parecchi punti % dalle regionali, alle amministrative al referendum.
La seconda riflessione è sulla netta affermazione di Matteo Renzi come leader del PD. Non c’è ombra di dubbio che le elettrici e gli elettori del PD che hanno partecipato alle primarie del 30 aprile abbiano dato fiducia a Renzi. Non c’è spazio minimo per il dubbio, né avranno le aree di minoranza interna alcuna effettiva agibilità per pensare di influenzare di alcunché questa leadership. Ogni cosa è in capo a Renzi, starà a lui decidere se continuare sulla linea divisiva e arrogante seguita da quattro anni a questa parte a suon di paludi, gufi e ciaone, oppure se concedersi in modo diverso. Ma mi sembra evidente, che a questo punto, sempre di concessione si tratterebbe. Su questo rimando all’articolo di Lucia Annunziata, molto interessante.
Tutto bene anche per Renzi quindi? Non direi. Il suo consenso è diventato personale: lo zoccolo duro di supporter, infatti, è per lui, non tanto per il PD. Si tratta di 1.283.389 milioni di voti (ancora da verificare9 che si è conquistato all’interno del partito, tra quei pochi rimasti dopo gli smottamenti e recuperando in parte dall’elettorato di centro. Qualcuno ha parlato di una “trasformazione antropologica” dell’elettorato PD. Ed io concordo: l’elettorato ampio, tradizionale, si è spostato fuori dal PD. Una parte è scivolata nell’astensione, una parte nelle formazioni di sinistra che si sono generate in questi ultimi anni, da Possibile (Pippo Civati) a MPD (Bersani) e qualche cosa sicuramente è confluita nel M5S. Si è consolidato l’aspetto dell’elettore attuale di Matteo Renzi: di mezza età, della media borghesia, relativamente benestante. Il PD perde soprattutto tra i giovani, che vedono questo partito come “apparato” e come “avversario”.
C’è da dire, inoltre, che il consenso di Renzi si però è assai ridotto dal 2013 ad oggi (prese 1.895.332). Infatti, perde 611.943 mila voti.
Una riflessione conclusiva, quindi, non può che essere interrogativa: è Matteo Renzi davvero il leader giusto per far vincere il PD alle prossime elezioni?
Dal mio punto di vista no. La scelta fatta da questa ridotta platea di elettrici ed elettori rischia di galvanizzare i supporter di Matteo Renzi, creando un potente bias. Pensare che il 70% di 1.8 milioni di elettori sia semplicemente sovrapponibile al consenso del PD con Renzi alle politiche su una platea di oltre 40 milioni di elettrici ed elettori è un errore grossolano, ma non nuovo: c’è la tendenza a commettere l’errore del 4 dicembre, perché il PD non prenderà il 40% da solo, non otterrà nessun tipo di premio di maggioranza, stante così la legge elettorale, e il consenso, risicato e personale di un leader, non basterà ad arginare la rabbia, la frustrazione e l’astio dei più.
Questa considerazione non è definitiva: starà a Renzi decidere che linea seguire, se vuole rivendicare quel che ha fatto nei 4 anni precedenti, come sembra voler fare, e limitarsi a dire “non siamo stati capiti” (supponendo quindi una platea di incapaci di intendere), oppure mettersi fortemente in discussione, come? Ricomponendo i rapporti che ha sfaldato a colpi di ironie e di forzature, con le formazioni esterne al PD che stanno alla sua sinistra ai sindacati, le associazioni con il mondo della scuola. Anche il modo in cui vorrà gestire il Partito sarà determinante per molti, definitivo, per decidere se continuare in questo impegno o dedicarsi ad altro. Non potrà continuare a nascondersi con la retorica del “ci avete messo nella palude” sia nel 2013 sia oggi ha il 70% (forse un po’ meno… Quando arriveranno i dati ufficiali si saprà) dei delegati dunque, qualsiasi cosa poteva essere fatta prima e può essere fatta ora: ma è la volontà di cooperare che gli è sempre mancata.
Il 7 maggio ci sarà l’Assemblea Nazionale del PD e lì avrà modo di esprimere il suo progetto: dalle parole, dal tono, dall’approccio, si capirà tutto, o quasi. Per lo meno chi si è fatto già 4 anni da delegato sotto la sua reggenza. E poi potremmo dire, ai posteri l’ardua sentenza.