Terminato il primo viaggio all’estero del presidente Donald Trump, unendo i puntini disseminati nelle varie tappe possiamo provare a tratteggiare il disegno complessivo della politica estera della sua amministrazione. Innanzitutto, i temi che andranno studiati e approfonditi nei prossimi mesi. C’è il tema del ritorno della leadership americana. Una leadership che però, diversamente dal passato, “is not for free”, non sarà gratis. Per nessuno. Nemmeno per gli europei con i quali gli Stati Uniti condividono i valori di libertà e democrazia. L’America non vuole più pagare per la sicurezza e il benessere altrui. E Trump ha presentato il conto. Non sarà gratis né sul piano militare, gli alleati dovranno accollarsi la giusta quota di spese e di oneri. Né sul piano commerciale: gli Stati Uniti non sono più disponibili a perdere tessuto produttivo e posti di lavoro sull’altare del libero commercio mondiale e della globalizzazione. La parola chiave è reciprocità. Inoltre, è una leadership dalla natura molto diversa da quella che i suoi predecessori hanno cercato con alterne fortune di esercitare. Non di natura “imperiale”, ma una leadership esercitata come nazione. Gli Stati Uniti sono una nazione sovrana ancora in grado di, e determinata a, tutelare i propri interessi nazionali e valori ovunque siano minacciati nel mondo, ma non pretendono di dare lezioni alle altre nazioni su come vivere a casa loro. Né nella variante “esportazione della democrazia” di Bush jr., né in quella liberal e global di Obama.
Un altro tema, collegato al primo, è il ritorno delle nazioni e dei confini: nella dichiarazione finale del G7 di Taormina, accanto ai diritti dei migranti e dei rifugiati, si ribadiscono, su richiesta di Trump sostenuta probabilmente da altri leader, “i diritti sovrani degli Stati, individualmente e collettivamente, a controllare i propri confini e stabilire politiche nell’interesse nazionale e per la sicurezza nazionale”.
Terzo tema, anch’esso collegato agli altri due. Si è manifestato l’approccio affaristico, da negoziatore di Trump alla politica estera. Le alleanze e i consessi multilaterali sono utili solo se attraverso il negoziato tra i partner si arriva a un compromesso funzionale agli interessi americani, altrimenti sono solo un peso di cui liberarsi: “America First”. Un approccio però mitigato, per esempio per quanto riguarda la Nato, dal team di politica estera e di sicurezza dell’amministrazione Usa, di cui fanno parte il segretario alla difesa Mattis, il segretario di Stato Tillerson e il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster, il cui approccio è più tradizionale e vede nell’Alleanza atlantica, per la comunanza di valori tra i paesi membri, un asset strategico in sé per gli Stati Uniti, e un moltiplicatore di forza.
Quarto tema: si è ormai affermata a questo G7, e per impulso non solo della presidenza americana, una visione meno ottimistica della globalizzazione. Siamo entrati nella fase degli aggiustamenti da apportare per correggere le distorsioni provocate da quell’ordine aperto e “liberale”, da “fine della storia”, che era stato edificato a partire dalla fine della Guerra Fredda. Il premier italiano Gentiloni sembra aver afferrato lo spirito del tempo rappresentato da Trump quando ha detto che “una certa ebbrezza della globalizzazione è alle nostre spalle. Dirsi a favore del libero scambio non significa non rendersi conto delle diseguaglianze più estreme e combatterle”. La parola chiave è “riequilibrio”. Nella dichiarazione finale del G7 viene sì ribadito l’impegno a tenere i mercati aperti e combattere il protezionismo. Ma viene anche introdotto il concetto caro a Trump di “fair trade” e reciprocità dei vantaggi. I leader “spingono per la rimozione di tutte le pratiche commerciali distorsive (dumping, barriere non tariffarie discriminatorie, trasferimenti di tecnologia forzati, sussidi e altri sostegni dai governi e dalle istituzioni) in modo da incoraggiare condizioni realmente uguali per tutti”. Il commercio internazionale deve essere libero, ma corretto e riequilibrato. Sulla globalizzazione i leader del G7 sembrano aver recepito dunque il messaggio portato da Trump: si va verso una correzione di rotta, anche perché la crisi del ceto medio in tutti i paesi avanzati, la sua mancanza di prosperità e soprattutto di prospettive, rischia di far deragliare anche le istituzioni democratiche.
Quinto e ultimo tema: era già in crisi da tempo, ma da domenica sembra improvvisamente superato l’ordine mondiale post-1945, che ha visto il mondo occidentale prima compatto nel contrapporsi al blocco sovietico e poi, cessata la minaccia comunista, impegnato nel realizzare le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione. La divisione che sta emergendo tra le nazioni occidentali, l’Anglosfera da una parte e l’Europa continentale, Germania in testa, dall’altra, con la Francia in mezzo, sembra ricalcare quella ottocentesca, precedente al primo conflitto mondiale. In questo contesto, la frattura Trump–Merkel segna il ritorno in Occidente della “questione tedesca”, un nazionalismo ben travestito da europeismo.
Nelle varie tappe del viaggio del presidente Trump (Medio Oriente, Nato a Bruxelles, G7 di Taormina) sono emersi con maggiore chiarezza gli attori internazionali che a Washington sono considerati alleati, vecchi o nuovi, e avversari. Per la precisione, due nemici e tre avversari strategici. I nemici si trovano in Medio Oriente: l’Isis ovviamente, ma in generale l’estremismo islamico, e l’Iran, ritenuto il principale stato sponsor del terrorismo al mondo e fattore di instabilità in Medio Oriente. Nel discorso di Riad, che abbiamo analizzato in un precedente articolo per Formiche.net, il presidente Trump ha assicurato ai tradizionali alleati arabi sunniti l’impegno Usa a contenere e isolare l’Iran. Ma anche questa alleanza non è gratis: i leader arabi dovranno in cambio combattere per davvero l’estremismo islamico. Gli avversari, con i quali cooperare quando possibile e confrontarsi per indurli a mutare comportamenti che ledono gli interessi americani, sono innanzitutto Russia e Cina. Il raid americano in Siria in risposta all’attacco chimico ordinato da Assad sulla popolazione civile è servito a mettere pressione su entrambe. Sulla Russia, per indurla a rompere il suo asse con Teheran e a dimostrare di essere un player responsabile, che coopera per la stabilità della regione, se vuol essere reintegrata nel tavolo dei grandi. Trump non intende regalare nulla a Putin sull’Ucraina: gli Usa continuano a considerare illegale l’annessione della Crimea da parte russa e le sanzioni contro Mosca resteranno in vigore fino alla completa applicazione degli accordi di Minsk e al completo rispetto della sovranità e integrità dell’Ucraina (stessa linea ribadita nella dichiarazione finale del G7 di Taormina). Pressione anche sulla Cina, per indurla a esercitare tutta la sua influenza per disinnescare la minaccia nucleare della Corea del Nord. Non solo nei giorni scorsi la terza portaerei Usa è giunta nella zona della penisola coreana, ma il cacciatorpediniere Uss Dewey si è addentrato entro le 12 miglia dalla costa di una delle isole artificiali realizzate da Pechino nel Mar cinese meridionale, dimostrando che Washington non riconosce la sovranità cinese su quelle isole e quelle acque.
Ma come è emerso dall’ultima tappa del viaggio di Trump, il G7 di Taormina, c’è un terzo avversario. Potrà destare una certa sorpresa, ma è in Europa: la Germania. Investito dal “ciclone Trump”, come definito dal direttore del quotidiano La Stampa Maurizio Molinari, è stato un G7 di svolta, lontano dall’unanimismo inconcludente che di solito caratterizza questi vertici. Nonostante i media abbiano tentato di rappresentare Trump come un bullo, distratto oltre i limiti della maleducazione, le impressioni riportate dagli stessi leader partecipanti al vertice dicono altro. Il presidente americano è apparso sì determinato nella difesa delle sue posizioni sui vari temi, e anche con un certo grado di successo, ma anche aperto e curioso nell’ascoltare le argomentazioni altrui. Trump viene descritto come “attento e partecipe” (persino nel momento del “drafting”) dal premier Gentiloni: “Molto dialogante, molto curioso, con una capacità e una volontà di interloquire e apprendere da tutti gli interlocutori”. “Ho trovato una persona aperta che ha volontà di lavorare con noi”, ha ammesso anche il presidente francese Macron, che domenica in un’intervista al Corriere si è mostrato ottimista sul presidente americano: “E’ una personalità forte, decisa, ma aperta, pragmatica, realista, capace sia di ascoltare, sia di arrivare dritta al punto”. Ha accettato di confrontarsi, non si è chiamato fuori, il G7 non è fallito: “Abbiamo dimostrato di essere una comunità di valori e Trump ne fa parte, non si chiama fuori. Farà la sua parte”.
Toni molto diversi anche nel riferire la discussione e il mancato accordo con gli Stati Uniti sul clima tra la Merkel, che ha parlato di una “discussione difficile, o piuttosto molto insoddisfacente”, e lo stesso Macron, che invece ha riferito di “discussioni ricche, progressi, vero scambio”, e di aver visto un Trump “pragmatico”, propenso ad ascoltare. Non tutti i leader insomma hanno preso così male come la cancelliera tedesca le “divergenze” con Trump al G7 di Taormina. Che si siano resi conto che il presidente americano può offrire una valida sponda per ridimensionare l’egemonia tedesca in Europa?
L’impressione infatti è che durante il vertice il pressing di Trump sia stato particolarmente forte su Berlino, soprattutto riguardo il commercio: ha definito “molto cattiva” la politica tedesca dei surplus commerciali. E il fastidio per i surplus tedeschi è un sentimento condiviso da molti paesi europei. Sul commercio il presidente Usa sembra aver trovato in Macron una sponda: “Basta dumping sociale” da parte di paesi dove gli operai hanno bassi salari e nessun diritto, “basta lavoratori delocalizzati”. Chissà che fra i due non sia scoccata una scintilla, una sintonia personale… Il presidente francese, ha osservato anche Molinari, “si è rivelato il più attento alle istanze americane: anche lui è arrivato all’Eliseo spinto dalla protesta contro le diseguaglianze ed i partiti tradizionali, rendendosi conto della necessità di un cambio di approccio alla distribuzione della ricchezza globale”.
Invece che uscire ridimensionato Trump, da questo G7 potrebbe essere uscita ridimensionata (e persino un po’ isolata) la Merkel. E questo spiegherebbe perché domenica la cancelliera ha rincarato la dose: “I tempi in cui potevamo fidarci completamente degli altri sono passati da un bel pezzo, questo l’ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani”. Nella frase successiva, sulla necessità di mantenere naturalmente “relazioni amichevoli con Stati Uniti e Regno Unito”, sullo stesso piano tra “gli altri vicini” dell’Europa ha citato la Russia di Putin. Con le sue parole la Merkel suggerisce di considerare concluso l’ordine mondiale post-bellico, noi europei dovremmo smettere di considerare i nostri liberatori, Stati Uniti e Regno Unito, “alleati affidabili”, per entrare in una nuova epoca di equidistanza dai nostri vicini a Occidente e ad Oriente. Ma la solidarietà transatlantica può andare in frantumi per una divergenza sull’accordo di Parigi sul clima? O è solo un pretesto?
Sempre domenica la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha riferito di un “piano segreto” della cancelliera per costruire una Unione europea politicamente ed economicamente più forte e indipendente. Un piano basato su tre pilastri: prioritaria la gestione della crisi dei migranti, quindi la stabilizzazione della Libia; una politica di difesa comune, con il via libera a un comando centrale di contingenti degli eserciti europei; e infine l’unione economica e monetaria, con il governatore della Bundesbank Jens Weidmann pronto a sostituire Mario Draghi al timone. Il piano di un’Europa equidistante tra Stati Uniti e Russia non è nuovo, è coltivato da anni a Parigi e a Berlino e le dichiarazioni di Angela Merkel non fanno altro che evocarlo. Un piano che però può rivelarsi un’illusione, se non addirittura un incubo. Un’Europa distante da Washington e Londra, esposta all’aggressività della Russia, assediata dall’estremismo islamico e dalla pressione demografica di Medio Oriente e Nord Africa… Auguri.
La realtà è che di strappo in strappo il processo di allontanamento della Germania dagli Stati Uniti non nasce con Trump e va avanti dalla riunificazione tedesca, che non sarebbe avvenuta così speditamente e morbidamente senza il sostegno degli Stati Uniti, contro i pareri dei russi, dei britannici e dei francesi. Ricordiamo la contrarietà dell’allora premier britannica Margaret Thatcher (la riunificazione “non porterà a una Germania europea ma a un’Europa tedesca”), le preoccupazioni dell’allora presidente francese Mitterand (farà riemergere i tedeschi “cattivi”) e l’emblematica battuta dell’ex presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. Ma da allora (altro che Trump…) la Germania non ha fatto altro che distanziarsi dall’alleato americano. Fin dalla crisi jugoslava. Berlino decideva di procedere al riconoscimento di Slovenia e Croazia, senza attendere l’Europa e contro il parere di Washington, salvo poi rifiutare di assumersi la responsabilità di gestire la crisi come chiedevano gli americani. Nel 2003 la rottura tra Bush e Schroeder sulla guerra in Iraq. Pur nella cordialità e nella stima reciproca, le relazioni non sono migliorate tra il presidente Obama e la cancelliera Merkel, che ha ignorato le richieste americane di abbandonare l’austerità per una politica economica espansiva dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dell’Eurozona nel 2010.
La riunificazione tedesca fu accettata sulla base della duplice garanzia dell’appartenenza della nuova Germania alla Nato e del quadro politico-istituzionale dell’Ue, all’interno di un ordine post-1945 che la vedeva in stretta partnership con i due vincitori occidentali della guerra: Stati Uniti e Regno Unito. Ma ora, assunta la guida politica ed economica dell’Ue (senza Londra nessun paese membro, nemmeno la Francia, può rappresentare un efficace contrappeso), la Germania ci spiega che sarebbe arrivato il momento di non ritenere più affidabili americani e inglesi come alleati e guarda caso di progettare una difesa comune europea, in prospettiva alternativa alla Nato.
“Con la Brexit svanisce la speranza più realistica per una soluzione europea alla nuova questione tedesca” e “la prospettiva di un cambiamento viene dall’esterno dell’Europa”, avverte il politologo Walter Russell Mead, spiegando come l’europeismo di cui i tedeschi vanno così fieri nasconda in realtà politiche nazionaliste. Un’analisi che abbiamo già riportato per Formiche.net. Cosa succede, si chiede, “se la Germania non è più vista come un pilastro leale dell’Occidente, ma come una potenza sconsiderata e mercantilista che mina l’Europa e danneggia l’economia americana”? La leadership tedesca infatti “poggia su basi insostenibili, al prezzo di un’Unione europea sempre più instabile e divisa”. “Se Russia, Turchia e Stati Uniti sono uniti nell’opporsi al progetto tedesco (sebbene non per gli stessi motivi e non con gli stessi obiettivi), e se è crescente il malessere di buona parte dei Paesi Ue, prima o poi il sistema si scontrerà con sfide che non può superare. Lo status quo – conclude WRM – non può durare, e più a lungo Berlino ritarda un cambio di rotta, più sarà doloroso, più alto sarà il prezzo che dovrà essere pagato”.
A questo punto bisogna rispondere ad alcune domande: vuole liquidare la Nato chi pretende che ogni membro contribuisca il giusto, il pattuito, e propone un riorientamento strategico dell’alleanza sulla lotta al terrorismo, oppure chi pur tra i membri più ricchi non spende quanto dovuto, né partecipa alle missioni quanto potrebbe? Chi vuole liquidare la Nato non è Washington, non è alla Casa Bianca, ma è a Berlino. È la Germania, con una spesa militare ridicola rispetto alla sua ricchezza e una partecipazione quasi nulla alle missioni, che ora che il Regno Unito è fuori dall’Ue intende lanciare la difesa comune europea, in prospettiva alternativa alla Nato e come ombrello del suo riarmo.