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Vesuvio e Campi Flegrei, bomba ad orologeria?

Di Enrico Salvatori
vesuvio

“Il vulcano dei Campi Flegrei nel Sud Italia potrebbe essere molto più vicino all’eruzione di quanto si pensasse in precedenza. […] Le autorità si preparino”. A lanciare l’allarme è l’accademico Christopher Kilburn, professore dello University College di Londra che, insieme ai dottori Stefano Carlino e Giuseppe De Natale dell’Osservatorio Vesuviano dell’INGV, ha firmato uno studio i cui preoccupanti risultati sono stati pubblicati la settimana scorsa su ‘Nature Communication’.

Stando alla ricerca, il vulcano sembra essere sempre più vicino alla sua fase critica: lo studio infatti mette in luce la possibilità di una nuova eruzione del vulcano tra capo Miseno e il promontorio di Posillipo: “Il vulcano – si legge nel comunicato dell’UCL – è stato irrequieto per 67 anni, con periodi di due anni particolarmente intensi negli anni Cinquanta, Settanta e Ottanta, che hanno causato piccoli e locali terremoti e sollevamento del terreno. Un simile comportamento si è verificato oltre 500 anni fa, quando per arrivare all’eruzione del 1538 ci è voluto un secolo”.

Ma al di là di ogni considerazione sugli studi recenti, è un dato di fatto che i Campi Flegrei il Vesuvio sono una bomba a orologeria che può esplodere da un momento all’altro. Non è un’opinione catastrofista, lo dicono i massimi esperti mondiali di vulcanologia. Basta ripercorrere la storia di queste due aree vulcaniche per capire che è soltanto questione di tempo: una nuova eruzione arriverà. Forse non oggi, forse non domani, ma arriverà. D’altra parte la stratigrafia indica che se accelerassimo la sequenza del tempo in quella regione saremmo continuamente bombardati da eruzioni vulcaniche: piogge di lapilli per decine di metri di spessore, flussi piroclastici devastanti con velocità di centinaia di chilometri orari, temperature di centinaia di gradi.

I tempi della geologia sono tempi lunghi rispetto a quelli della vita umana e questo è per noi certamente rassicurante: tendiamo a spostare il problema in là nel tempo, a non sentirlo attuale. Eppure è attualissimo. Oggi tre milioni di napoletani poggiano i piedi su una delle aree a più alto rischio sismico, vulcanico e idrogeologico del mondo, una regione compresa tra due vulcani attivi di cui un “supervulcano” (i Campi Flegrei), cioè una di quelle poche caldere – sono dieci o dodici in tutto il mondo – che hanno un diametro di alcune decine di chilometri e che in caso di eruzione sono in grado di produrre devastazioni ultraregionali.

I fattori che rendono un’area metropolitana una “zona rossa” sono essenzialmente tre: la probabilità che un evento eruttivo si verifichi in un dato periodo di tempo; il “valore esposto”, ovvero il numero di vite umane, proprietà, beni artistici e archeologici in pericolo; la vulnerabilità del suo territorio, cioè il patrimonio che sarebbe distrutto dall’evento catastrofico.

Nelle nostre numerose conversazioni telefoniche a Radio Radicale il prof. Giuseppe Mastrolorenzo mi ha raccontato di aver segnalato a più riprese la reale situazione della città di Napoli e di sostenere ancor oggi con forza la necessità di un serio piano di emergenza per far fronte a un’eventuale eruzione. Ciò che è emerso dalle nostre telefonate è piuttosto chiaro: rinviare il piano di emergenza significa giocare d’azzardo con le vite dei napoletani. È infatti solo questione di fortuna se la popolazione non è stata ancora investita da una catastrofe di portata regionale.

La storia di Mastrolorenzo è un ottimo esempio dell’atteggiamento nocivo con cui da sempre si affronta la questione a livello istituzionale e vale la pena riportarla.

Nel 2006 il vulcanologo pubblicò una ricerca sulla prestigiosa rivista americana Proceedings National Accademy of Sciences, nella quale sosteneva che tutta la città di Napoli dovesse essere inserita all’interno della “zona rossa”. La sua pubblicazione dimostrava la totale inadeguatezza del piano di emergenza, che era stato impostato dalla Protezione Civile sottovalutando l’effetto di una eruzione di tipo “pliniano”.

«Tutto iniziò casualmente nel 1995 con la scoperta sulle montagne di San Paolo Belsito di due scheletri sepolti da un metro di pomici. Secondo le analisi archeologiche, questi due scheletri erano riconducibili a una popolazione fuggita da un antico villaggio nella zona dell’attuale Nola risalente all’Età del Bronzo: una Pompei di 3800 anni fa» mi ha raccontato Mastrolorenzo. «A parte i due scheletri, ci chiedemmo che fine avessero fatto tutti gli altri abitanti del villaggio. La risposta arrivò dieci anni più tardi: durante gli scavi della Tav del 2004 vennero ritrovate migliaia di impronte di persone nell’area oggi occupata dalla città di Napoli. I segni del passaggio di esseri umani erano incise in un raggio di 25 km dal vulcano».

In geologia si dice che ciò che è accaduto in passato riaccadrà negli stessi luoghi e nelle stesse modalità anche in futuro. Per questo il vulcanologo realizzò una mappa rappresentando i due livelli di un’eruzione di portata simile a quella dell’Età del Bronzo: il cosiddetto livello di fall out, cioè quello di caduta di ceneri e lapilli, che durante la precedente eruzione andavano essenzialmente verso nord-est, e il livello dei flussi piroclastici, che si dirigevano verso ovest e nord-ovest nel territorio della città di Napoli. In seguito sviluppò delle simulazioni numeriche realizzando delle mappe di pericolosità e dimostrò come la portata di un’eruzione analoga sarebbe di almeno 25km.

È con questo lavoro sul disastro di 4000 anni fa, pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica americana e ripreso dalle televisioni di tutto il mondo, che cominciarono gli attriti con l’operato della Protezione Civile. Ciò che il professore contestava in modo deciso, a parte l’inesistenza del piano d’emergenza, era il fatto totalmente assurdo che Napoli non fosse ancora considerata come una città potenzialmente a rischio né per il Vesuvio né per i Campi Flegrei. Del resto la sua simulazione del fall out parlava chiaro: se si verificasse un’eruzione di tipo pliniano del Vesuvio, ci sarebbe il 95% di possibilità che l’intera città di Napoli sia completamente ricoperta da uno strato di cenere e lapilli di uno spessore di alcune decine di centimetri, forse anche metri.

Nello stesso periodo delle ricerche di Mastrolorenzo la Commissione Grandi Rischi, che è la struttura di collegamento tra la comunità scientifica e il Servizio Nazionale di Protezione Civile, ovvero l’ente preposto a dare pareri tecnico-scientifici sulla valutazione, previsione e prevenzione, continuò a riunirsi ma non espresse alcuna preoccupazione per il fatto che Napoli non fosse ancora inserita nel piano d’emergenza. Prevalse un atteggiamento “fideista”, una tendenza a non vedere l’attualità del problema, a sperare nell’intervento provvidenziale del San Gennaro di turno.

«In realtà – mi ha raccontato a Radio Radicale Mastrolorenzo – il problema non era soltanto nella Protezione Civile, che è un organo di governo, ma anche nella ricerca scientifica e nella modalità di comunicazione delle informazioni alle istituzioni. La situazione era complessa perché mi trovavo contro anche alcuni colleghi che mi dicevano “sì, sappiamo benissimo queste cose, ma non piacciono alla Protezione Civile”. Io rispondevo che noi ricercatori ci occupiamo di ricerca e non dobbiamo far piacere a qualcuno. Per questo ho continuato la mia battaglia».

Da questa polemica con la Protezione Civile allora presieduta da Guido Bertolaso sono passati dieci anni e il vulcanologo non ha smesso di fare segnalazioni numeriche fondate sui suoi studi. Ma cos’è cambiato nel frattempo? Dal punto di vista della prevenzione poco o niente. Sebbene Napoli cominci a essere considerata una città a rischio vulcanico, continuano a mancare sia per il Vesuvio che per i Campi Flegrei un vero piano d’emergenza nazionale, dei piani di emergenza comunali, informazioni dettagliate per le persone e prove di evacuazione costanti. In altre parole non è cambiato l’atteggiamento di assurda indifferenza da parte delle autorità per le questioni geologiche della regione napoletana.

Un esempio lampante di questa indifferenza è la vicenda della perforazione di Bagnoli. Nel 2013, con l’autorizzazione del Comune di Napoli, fu consentita nella zona dell’ex Italsider, quella della cosiddetta “Bagnoli Futura”, una perforazione a 3500 metri di profondità per scopi scientifici e di sfruttamento di energia geotermica (si prevedeva persino la costruzione di centrali geotermoelettriche). «Ciò che incredibilmente non si prese in considerazione in fase di studio è la natura vulcanica di quest’area in attività sul bordo orientale dei Campi Flegrei, un’area in cui è presente Nisida, un vulcanetto che secondo le recenti datazioni si è formato 3900 anni fa (dunque dove c’è stata fuoriuscita di magma relativamente recente; 3900 anni per la geologia sono ieri!), e che è attualmente priva di un piano d’emergenza. Un mese dopo l’inizio delle perforazioni si sono verificate circa duecento scosse nella zona di Pozzuoli».

Anche in quell’occasione il professor Mastrolorenzo fu praticamente il solo a contestare l’autore della ricerca, che venne poi interrotta per via del sequestro della “Bagnoli futura” e l’apertura di un’inchiesta della Procura della Repubblica in seguito alle segnalazioni di alcuni cittadini.

Ma secondo quali criteri fu data l’autorizzazione in una zona vulcanica? È noto che le perforazioni siano attività a rischio: le società che svolgono i lavori non possono garantire la sicurezza perché vìolano il cosiddetto “principio di precauzione”. Chi si assumeva allora la responsabilità per la perforazione di Bagnoli? L’autore della ricerca? Il sindaco di Napoli che l’aveva autorizzata? Certamente non la Protezione civile, che in un’area priva di un piano d’emergenza declinò in quella circostanza ogni responsabilità.

«Tutte le più grandi catastrofi naturali degli ultimi anni – ricorda Mastrolorenzo – e specialmente l’uragano Katrina nel 2005, il maremoto nell’Oceano Indiano nel 2006 e il terremoto in Giappone nel 2011 hanno una caratteristica comune: le autorità ne hanno sottovalutato la pericolosità, cioè hanno scelto un livello di rischio basso. È esattamente ciò che sta avvenendo nel caso del Vesuvio e dei Campi Flegrei: si sceglie uno scenario minore. Questo atteggiamento di ottimismo, o di disinteresse, è forse normale nella collettività, che non ha conoscenza dei tempi e delle questioni geologiche, ma è inaccettabile da parte di autorità e ricercatori, che dovrebbero documentare il livello di pericolosità e pianificare azioni di sicurezza. È inaccettabile perché ogni giorno che passa è un azzardo sulla popolazione locale».

Ed è proprio con questi argomenti che, il 4 giugno del 2013, alcuni cittadini della “zona rossa” hanno presentato un ricorso alla CEDU, denunciando alla Corte di Strasburgo che «pur non essendosi ancora verificato un pregiudizio per la loro vita, la Convenzione risulta violata per il solo fatto che le Autorità abbiano omesso e omettano di adottare, nei confronti dei ricorrenti medesimi, le misure legislative e provvedimentali adeguate a fronteggiare un evento dannoso che non è incerto se si verificherà ma solo quando si verificherà».

Sul sito internet della Protezione Civile si legge: «Alla luce della storia eruttiva del Vesuvio si prevede che, qualora l’attività dovesse riprendere entro qualche decennio, la prossima eruzione sarebbe esplosiva di tipo subpliniano. Lo scenario che gli studiosi considerano possibile è quello della formazione iniziale di una colonna eruttiva alta diversi chilometri (da 15 a 20), con caduta di bombe vulcaniche e blocchi nell’immediato intorno del cratere, nonché di particelle di dimensioni minori (ceneri e lapilli) fino a decine di chilometri di distanza, nella direzione del vento dominante; successivamente dal collasso della colonna si formano colate piroclastiche che scorrono lungo le pendici del vulcano per alcuni chilometri, fino a raggiungere il mare in pochi minuti».

Ma l’ipotesi dei consulenti della Protezione civile non convince affatto il professor Mastrolorenzo: «Non c’è alcuna base scientifica per scegliere uno scenario intermedio, subpliniano. Lo scenario massimo è pliniano, quello del 79 d.C., dunque dobbiamo essere pronti ad un evento della massima portata possibile».

Il paradosso di questa vicenda è che il gruppo consulente, quello stesso che ha dichiarato una probabilità di eruzione pliniana del Vesuvio tra il 4 e il 20%, ha realizzato un’altra pubblicazione (a cui ha collaborato peraltro anche l’ex presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia Enzo Boschi) nella quale si chiarisce un aspetto molto importante: in base allo studio comparativo tra il Vesuvio e gli altri vulcani attivi al mondo si stabilisce che un edificio vulcanico a condotto chiuso è assolutamente imprevedibile, cioè che non vale alcuna ricerca scientifica e statistica: il vulcano fa ciò che vuole. Ciononostante la Commissione Grandi Rischi e la Protezione Civile continuano a scegliere uno scenario minore.

Ma siamo sicuri che l’approccio ottimista sia davvero irragionevole? Dopotutto se dovessimo prendere in considerazione la portata massima degli eventi avvenuti sul nostro pianeta, non usciremmo più di casa e forse dovremmo attrezzarci per difenderci anche dai meteoriti.

«Qualche volta – mi ha spiegato Mastrolorenzo – la Protezione civile ha fatto l’esempio dei meteoriti per difendere i piani d’emergenza a mio avviso inadeguati. Ma è ben diverso perché la probabilità che un meteorite possa provocare distruzione in una città è estremamente più bassa di un’eruzione vulcanica. Nel caso del metorite parliamo di una possibilità su dieci milioni. Rispetto a una possibile eruzione, ragioniamo su una frequenza estrema. Basti pensare che negli ultimi 20.000 anni il Vesuvio è eruttato una decina di volte. Il fatto è che dietro queste valutazioni “ottimistiche” si nasconde un aspetto che non può essere facilmente dichiarato: i piani di evacuazione costano».
In altre parole, suggerisce il vulcanologo, prevale un’analisi costi-benefici per cui si sceglie di impostare una strategia per mettere in salvo soltanto una parte della popolazione residente in quelle zone. Ed è forse questa la ragione per cui esiste una distanza notevole tra ciò che emerge dalla ricerca scientifica e la gestione del rischio da parte delle autorità competenti.

D’altra parte è pur vero che i piani d’emergenza non sono obbligatori: i governi possono autonomamente decidere che non costituiscono una priorità. Tuttavia si tratta di una scelta politica che secondo Mastrolorenzo bisognerebbe dichiarare onestamente. «Non possiamo permetterci di giocare d’azzardo con le eruzioni e dobbiamo essere pronti da subito. Finora siamo stati alla finestra in attesa che la bomba a orologeria esploda. Il bradisismo dei Campi Flegrei degli anni ’70 e ’80 non si è concluso con un’eruzione. Però sappiamo che le crisi del 1538 si risolsero con un’eruzione. Studi comparativi con altri vulcani simili ci suggeriscono pochi giorni precursori fatti di deformazioni del suolo e terremoti. Ma non c’è niente di garantito. Se oggi cominciasse una crisi preeruttiva nei Campi Flegrei, nessuno a livello mondiale potrebbe dire se l’eruzione verrà, quando verrà e di quale tipo sarà. Stamm’ sott’ ‘o cielo».

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