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Che cosa dimentica Theresa May nella guerra al terrorismo jihadista

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Di fronte alla guerra lanciata dal jihad globale nessuno è al riparo. E’ un dato di fatto che invita alla modestia e alla prudenza nel giudicare quel che i governi dei Paesi occidentali hanno fatto (o non fatto) per alzare la guardia contro il terrorismo. Certo, a giudicare dai risultati, bisogna dire che la Francia, il Belgio e la Gran Bretagna, i Paesi più colpiti perché quelli nei quali è maggiore la presenza di comunità islamiche da almeno due generazioni, hanno fatto molto poco e molto male. Se bisogna sempre attenersi alle impressioni basate sui fatti, anche Theresa May potrà fare davvero poco e male, nonostante i suoi proclami elettoralistici.

“Adesso basta”, ha detto la premier britannica, “Quando è troppo è troppo”. Ma quando comincia il troppo? Londra non è stata brutalmente colpita il 7 luglio 2005, ben 12 anni fa? E che cosa ha fatto da allora la Gran Bretagna? Ha lasciato crescere un’onda di risentimento e rivincita non contro il fondamentalismo islamico, radice ideologico-politica del terrorismo di Al Qaeda come dell’Isis, ma contro gli idraulici polacchi che rubano il lavoro agli inglesi e i lavapiatti italiani che vivono a sbafo del welfare state pagato dai britannici.

In nome della Union Jack e dei suoi “autentici valori”, il Regno Unito ha abbandonato l’Unione europea, ma ospita nelle sue università dietro lauti pagamenti gli sceicchi che a loro volta pompano denaro e veleno ideologico nelle truppe jihadiste. Non è forse un altro dato di fatto che la signora May non dice? Adesso critica il modello d’integrazione “tribale” secondo il quale ogni comunità è libera di vivere come vuole e farsi gli affari suoi. Anche gli affari degli emiri che hanno occupato Chelsea?

Si può naturalmente discutere se la variante comunitaria di integrazione funziona meglio o peggio di quella “repubblicana” alla francese. Ma l’esperienza dimostra che nessuna delle due ha dato buoni frutti. Nell’un caso e nell’altro si sono creati ghetti che alimentano l’odio sociale, di classe, religioso, razziale, cioè tutto quel brodo di coltura nel quale crescono i terroristi siano essi “lupi solitari” o agenti provocatori del califfo.

Ed è proprio quel brodo che in Europa (e anche negli Stati Uniti sia pure in modo diverso) le classi dirigenti non hanno prosciugato. O meglio, non hanno nemmeno cominciato, perché prosciugarlo è un lavoro di lunga lena. Si comincia con il lavoro e con la scuola, con i comportamenti individuali e collettivi e con la religione. Fino a che punto le comunità islamiche sono state coinvolte in modo non episodico, ma strutturale, permanente, nella battaglia ideale contro il terrorismo? Gli imam, i predicatori, i maestri (quelli buoni naturalmente) hanno smesso davvero di pensare che gli adepti del califfo sono “fratelli che sbagliano” e non “nemici dell’islam”?

Questo lavoro ai fianchi, questo agire in profondità, non è alternativo alla repressione e all’aumento della sicurezza anche con leggi ad hoc. L’Italia è stata criticata a lungo, anzi condannata sull’altare dei diritti, per le sue norme contro il terrorismo “fascio-comunista” degli anni ’70-‘80 e adesso si sente la May parlare di carcerazione preventiva o di collegare strettamente servizi segreti e polizia (cosa che l’Italia nel suo piccolo ha fatto). Guai a vantare la primogenitura, sia chiaro. La tragedia di Torino dimostra, del resto, quanto impreparate sono le autorità (dal comune alle forze dell’ordine) di fronte al terrore, vero o presunto. Tuttavia ha un sapore davvero penoso tutto questo chiudere le stalle quando i buoi sono scappati.

Perché succederà così, si chiuderanno le porte agli immigrati, mentre il verme rode e corrode da dentro le società occidentali. Verrà rilanciato un primato ideologico basato sul nichilismo e sul narcisismo. Si chiederà di ridurre la libertà (sia individuale sia collettiva), perché l’ignavia e l’ipocrisia impedisce di ammettere che invece bisogna esportare la democrazia liberale. Sì, avevano ragione i neocon, aveva ragione Tony Blair e ha torto Theresa May. Quanti giri di parole si usano oggi nella vita politica e sulla stampa (quella italiana in particolare, ma non solo) pur di non arrivare a questa conclusione che sarà pure amara, ma è vera.

Si parla di “battaglia culturale” e che cosa vuol dire se non rimettere al primo posto il sistema liberal-democratico? Si parla di soft power (e ciò vale per i liberal) ma che cos’è se non la diffusione dei principi dell’89 (anzi degli ’89, il 1789 e il 1989)? Donald Trump che non crede alla esportazione della democrazia liberale (e forse nemmeno al sistema liberal-democratico in sé), ispirato dall’ala realista dei suoi consiglieri, è andato in Arabia Saudita e ha proposto loro uno scambio: armi contro una politica attiva contro i sostenitori del terrorismo. Cioè chi? Gli sciiti iraniani e siriani appoggiato dai russi ai quali Trump ha dato sostanziale via libera in Medio Oriente e in Nord Africa?

I sauditi per far vedere la loro buona volontà hanno deciso di rompere le relazioni diplomatiche con il Qatar. Un gesto opportuno. Forse un primo passo. Restiamo in attesa di capire se i sauditi romperanno i loro legami con i gruppi jihadisti sunniti dei quali fanno parte sia Al Qaeda (di matrice saudita) sia Daesh (di matrice irakena). La real politik è uno strumento importante, sia chiaro, ma solo se e quando si accompagna a una politica (esterna e interna) guidata da alcuni principi fondamentali, non quando si trasforma in giri di valzer senza direzione.

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