Prima domanda: se non fossimo dentro una guerra asimettrica con il terrorismo islamico, ci sarebbe stato tutto questo cancan su un provvedimento pomposamente chiamato “ius soli temperato” e “ius culturae” che invece sembra una più banale sanatoria? La ovvia risposta è no. Avrebbero protestato i sovranisti, gli xenofobi, i razzisti, ma avrebbero ottenuto una eco ridotta.
Seconda domanda: la legge introduce un nuovo principio e viola una legge più antica e arcaica, quella degli avi, del sangue, della etnia? Anche qui la risposta è no, perché già oggi si può diventare cittadini italiani a 18 anni.
Terza domanda: la regolarizzazione di uomini, donne e bambini, a certe condizioni, apre la porta alla invasione dei barbari o, come scrivono sul Fatto quotidiano per coprirsi con i populisti di destra e di sinistra, di una manodopera a basso prezzo che ruba il lavoro agli italiani, un esercito industriale di riserva su scala mondiale? Non ci sono evidenze che dimostrino queste affermazioni, anzi esistono moltissimi posti di lavoro rifiutati dagli italiani. Qualche esempio? I panettieri a Roma e poi ci si lamenta perché “tutti i pizzaioli sono egiziani”. Gli informatici nelle fabbriche tessili di Biella come denuncia la Vitale Barberis Canonico, la più antica azienda laniera (e poi vedremo che succede se assumono ingegneri indiani). E potremmo continuare. Anche il Corriere della Sera neopopulista scopre finalmente che “il lavoro c’è, basta volerlo e crearlo”. Speriamo che questa “illuminazione” non resti limitata all’inserto economico, visto che nelle pagine quotidiane si scrive il contrario spesso e volentieri.
Non ci sono dunque molti appigli per una battaglia di ragione e di fatto contro il cosiddetto ius soli temperato, a meno di non essere apertamente xenofobi (molti lo sono, non solo tra leghisti e pentestellati, allora è meglio che si chiamino con il loro nome). E tuttavia la legge così come è congegnata offre il fianco ai suoi avversari.
E veniamo alla quarta domanda: il provvedimento è stato concepito e costruito tenendo conto dei sacri principi, ma anche del modo di applicarli qui ed ora, in questo mondo dilaniato da un conflitto di culture? Anche in questo caso la risposta è no.
La quinta domanda riguarda che cosa si poteva e doveva fare. Lasciamo agli esperti risposte giudiricamente ben formulate. La nostra sensazione è che occorreva inserire tra le condizioni non solo la conoscenza della lingua italiana (da imporre, insieme alla competenza, anche a chi vuole candidarsi in Parlamento), un lavoro, un alloggio, un permesso di soggiorno per almeno cinque anni, ma anche un impegno esplicito al rispetto dei valori di libertà individuale, religiosa, collettiva e dei costumi prevalenti nella società della quale si vuole entrare a far parte.
La nazione come insegnava Federico Chabod, un autore liberale ingiustamente accantonato, si basa su una scelta volontaria, è un desiderio, un diritto comune; la patria è una missione scritta con l’alfabeto della libertà non con la penna intinta nel sangue. Tutte le altre considerazioni etniche, razziali, storiche persino, sono pure invenzioni ideologiche ottocentesche.
Gli stessi Paesi europei sono sempre stati composti da molteplici etnie, culture e religioni fino al 1939 quando è stata imposta una pulizia etnica che ha avuto conseguenze anche dopo la caduta del nazismo. Come racconta Tony Judt nel suo fondamentale volume “Dopoguerra”, la Germania divenne tedesca, la Polonia polacca, l’Austria austriaca, l’Italia stessa italiana solo con la costruzione di quel mosaico di stati e staterelli che resse pochi anni, fino alla occupazione sovietica dell’Europa centro-orientale. Una storia ben recente, dunque, a dispetto di chi si riempie la bocca di Storia per giustificare il proprio pregiudizio.
Allora, se si tratta di una scelta, la legge dovrebbe specificare bene, chiaramente, rendendo esplicito ciò che può sembrare implicito, che cosa si sceglie. Sarebbe utile, del resto, anche agli oppositori del provvedimento per ricordare loro in che Paese vivono, di quali diritti possono godere, diritti che non sono dati una volta per tutte, per nascita o per sangue, ma sono stati conquistati dai loro padri, fratelli, cugini i quali hanno costruito nuove radici al posto di quelle estirpate dalla generazione precedente.
Chi fa appello agli avi, dovrebbe sempre aggiungere a quali avi si riferisce, a quelli che hanno portato al potere Mussolini o a quelli che hanno liberamente firmato la Costituzione?
Stefano Cingolani