L’algoritmo vince ancora, anche in Francia. In politica, come sui mercati, si sfrutta la volatilità: più è alta, più aumentano le probabilità di fare soldi e di raccogliere voti. Il successo dei candidati de La Republique en Marche, che hanno raccolto il 32% dei voti, non è affatto diverso da quello dei grillini in Italia, o di Syriza e Podemos in Grecia e Spagna. Su versanti diversi, la elezione di Donald Trump e il voto favorevole alla Brexit si iscrivono nel medesimo perimetro: la palese incapacità delle forze politiche tradizionali di fornire, a dieci anni dall’inizio della crisi, una risposta agli squilibri esistenti.
Viene premiato ancora una volta chi riesce a imporsi come novità risolutiva con il giusto timing. Chi arriva tardi, come Matteo Renzi rispetto al successo elettorale del M5S, non può che limitarsi al take-over di un partito esistente. L’esperienza vincente di Silvio Berlusconi, con Forza Italia nel 1994, non fu che la prima: offriva agli elettori una sponda nuova nel collasso della prima Repubblica.
Per vincere le elezioni non servono contenuti nuovi, ma solo un contenitore in cui aggregare il consenso dei dissenzienti attivi. A ridurre il numero dei voti che serve per arrivare al potere basta l’astensionismo crescente. Ci si mettono poi i meccanismi elettorali che premiano la governabilità: con il 32% dei consensi e il 51% di astensionismo, le proiezioni al ballottaggio portano ad attribuire al partito di Macron l’80% dei seggi. Una esigua minoranza otterrebbe una rappresentanza schiacciante. Premiare la governabilità a detrimento della rappresentatività è una scorciatoia su cui pure da noi ci si era incamminati, con l’Italicum, prima della censura della Corte costituzionale si prevedeva l’attribuzione di un premio d maggioranza al ballottaggio senza che ci fosse una soglia minima di voti.
In Francia, un ipotetico sistema proporzionale avrebbe portato all’esigenza di trovare alleanze in Parlamento, disinnescando la portata dirompente della Rèvolution descritta nel libro in cui Macron ha condensato il suo progetto politico. Aveva fiutato già un anno fa l’aria di scontento e di disaffezione dei francesi, sia verso la presidenza Hollande sia verso gli epigoni di gaullismo dilaniato dai troppi pretendenti: occorre entrare finalmente nel nuovo secolo, cambiando tutto. Il 2017 è una data simbolica, come lo fu il 1917: allora fu la guerra mondiale a far detonare le tensioni accumulatesi in decenni. Stavolta sono i sistemi statali ad implodere, perché gli apparati pubblici sono autoreferenziali, mentre le regole che disciplinano il lavoro sono troppo rigide rispetto alle esigenze delle imprese.
La crisi dipende dalle mancate risposte agli sconvolgimenti tecnologici, demografici e competitivi: serve la Rèvolution. Purtroppo, non c’è nulla di nuovo nell’analisi della globalizzazione e della situazione francese, che sembra descrivere quella italiana.
Non è affatto vero che destra e sinistra sono categorie desuete, come liberismo e giustizia sociale: la crisi ha delegittimato tutti i partiti tradizionali, in Europa come negli Usa, per via dell’impotenza dimostrata al Governo. La progressiva sottrazione agli Stati delle leve di politica economica, in campo commerciale, industriale, monetario, creditizio, bancario e di bilancio li ha reso impotenti. Si crea sempre nuovo spazio per nuovi protagonisti. Per alimentare il rogo della Storia, c’è sempre il posto: “Avanti un altro”.
(Articolo pubblicato su MF/MilanoFinanza)