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L’Europa segua l’America nel setacciare gli investimenti della Cina

Cina, EMMANUEL MACRON

“L’Italia per la sua struttura economica di piccole e medie imprese è il boccone migliore per la Cina, quindi ben venga il piano Macron a tutela delle aziende europee che serva a ristabilire una concorrenza che oggi è asimmetrica”. Ne è convinto il professor Romeo Orlandi, economista e sinologo, docente di Processi di globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e Vice Presidente dell’Associazione Italia-Asean (presieduta dall’ex presidente del Consiglio Enrico Letta).

“Il presidente francese – spiega a Formiche.netdenuncia problemi seri come il disavanzo commerciale e ancor più quello degli investimenti. Molte aziende europee che lavorano in Cina, ad esempio, si lamentano della scarsa trasparenza nell’assegnazione delle gare internazionali. Perché l’Europa apre le porte alle aziende asiatiche e lo stesso non accade da loro?”.

“È proprio questo il punto – gli fa eco l’avvocato Enrico Toti, uno dei maggiori esperti di diritto cinese per lo studio Nctm (Negri, Clementi, Toffoletto, Montinori) – serve un accordo di reciprocità che ad oggi non esiste. Di fatto se un gruppo italiano vuole recarsi in Cina per investire va incontro ad una serie di veti e procedure messe in atto da Pechino che blocca e seleziona l’investimento. Diversamente questo da noi non accade. Ad esempio in Cina nessuno può investire nel settore del trasporto passeggeri, nella difesa e in particolare nel comparto aeronautico, nei servizi postali, nel campo televisivo e dell’informazione e perfino nei corsi di formazione. I cinesi così facendo selezionano solo ciò che gli interessa ponendo poi anche il problema della maggioranza che nelle società miste non può essere mai in mano allo straniero di turno. Tutto viene costruito ad immagine e somiglianza della Repubblica popolare”.

Che fare, quindi? Per Orlandi il detonatore che ha ricompattato l’Europa sulla Cina è stato il nuovo inquilino della Casa Bianca. “Registriamo una coesione europeista ma vista prima”, spiega, “dovuta proprio alle politiche protezionistiche di Donald Trump. Questo potrebbe portare paradossalmente a rafforzare l’asse Bruxelles-Pechino. Ma ciò non avviene perché, fin quando ci sarà una concorrenza falsata dallo strapotere dei soldi cinesi che permette a mani basse di fare shopping di aziende europee e di rilevarne il khow how, i rapporti seppur buoni tra Europa e Cina vengono accantonati da esigenze diciamo nazionalistiche”.

Tutto chiaro ma non si capisce poi, alla resa dei conti, al di là dell’annuncio di Macron al Consiglio Europeo come si possano realmente fermare gli investimenti cinesi, come costruire lo scudo a tutela delle aziende europee. “Si può fare come fanno già gli Stati Uniti: scrutinare da dove vengono i soldi cinesi, come vengono utilizzati, applicare sempre una due diligence per vedere se vi siano le effettive condizioni di fattibilità dell’operazione, se sussistano elementi e profili di criticità che possano comprometterne il buon esito, costruendo al contempo una solida base per l’eventuale negoziazione delle condizioni contrattuali dell’operazione”. “E se tutto ciò non bastasse – aggiunge Toti – si potrebbe stilare una lista di settori o di aziende che non possono essere vendute o cedute (ad esempio quelle che operano nel campo della difesa o delle nuove tecnologie) per, diciamo, ragion di Stato”.

Ma ciò che manca per Toti è un’Autorità che monitori gli investimenti. “Dovrebbe essere fatta a livello statale, con il Ministero dello Sviluppo Economico – prosegue – che si faccia carico fondamentalmente di tre cose: selezionare o contingentare gli investimenti economici nel nostro Paese; stabilire anche la percentuale d’investimento; affermare che in alcuni settori vige l’interesse nazionale come ad esempio la rete di telecomunicazioni, il comparto energetico o quello delle acque. Insomma evitare ciò che è successo con gli yacht: attraverso il gruppo Shandon Heavy Industries di fatto i cinesi si sono comprati non solo Ferretti ma l’intero indotto per poco più di 370 milioni di euro. In Cina non sarebbe mai potuto accadere. Loro hanno un Catalogo per gli Investimenti Esteri che seleziona di fatto gli investimenti ammessi. Noi in Italia siamo completamenti a digiuno di questa politica, non esiste alcun tipo di selezione o sbarramento”.

Ma affinché il piano Macron possa andare in porto e non essere solo una politica di bandiera occorre che l’asse franco tedesco riprenda vita, dopo l’esperienza non certo entusiasmante di Francois Hollande, e tutti gli indizi stanno portando verso questa soluzione che è stata promossa dal neo presidente francese (L’Europa non è un supermecato ma un destino comune ma che vede anche la Merkel, che probabilmente sarà riletta, assolutamente favorevole. “E le dirò di più – conclude Orlandi – tutto questo conviene all’Italia che è fortemente esposta al profumo dei soldi cinesi e non ha barriere protettive. La maggiore reciprocità invocata da Macron alla fine è la stessa che chiede il nostro ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, ad esempio, quando in Europa ha fatto, quasi in solitaria, la battaglia per impedire il riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato”.

“Sotto il profilo giuridico – conclude Toti – l’unica cosa che può funzionare davvero è un accordo di reciprocità tra Cina e Unione Europea dove si stabiliscono i diritti di proprietà su beni immobili, mobili ed altri diritti reali, i crediti monetari e le prestazioni a titolo oneroso derivanti da contratti, l’acquisizione di imprese esistenti o di quote di esse, la creazione di imprese nuove ma anche i diritti d’autore e di proprietà industriale, altro tema che a noi è molto caro (vedi tutto il filone della contraffazione). Si parti da qui per stabilire le condizioni degli investimenti reciproci. E ben venga Macron e un’Europa più sensibile a questi temi che riguardano il diritto e tutti noi cittadini”.


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