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Se l’Europa si scopre trumpiana con la protezionista Cina

H.E. Xi Jingping

Le due notizie secondo cui la cancelliera tedesca Angela Merkel sarebbe la nuova leader del mondo libero e il presidente cinese Xi Jinping l’alfiere della globalizzazione e del libero commercio (com’è stato incoronato dopo l’ultimo World Economic Forum di Davos), nonché da qualche giorno anche del clima, sono nella migliore delle ipotesi “fortemente esagerate”.

Basti pensare che mentre prendiamo lezioni di libero commercio da Xi Jinping, la Cina non è ancora riconosciuta come economia di mercato. E nell’Indice della libertà economica elaborato ogni anno da Wall Street Journal e Heritage Foundation risulta al 139esimo posto (tra i paesi “non liberi”) su 178 paesi. Gli Stati Uniti sono all’undicesimo posto, la Germania è al sedicesimo, la Francia al 73esimo e l’Italia all’80esimo posto. Negli ultimi cinque anni, mentre gli Stati Uniti hanno ridotto le loro emissioni di CO2 di 270 milioni di tonnellate, la Cina le ha aumentate di oltre un miliardo di tonnellate, e anche se Pechino rispettasse gli impegni presi con l’accordo di Parigi sul clima non vedremmo progressi significativi fino al 2030.

La realtà è che la leadership cinese ha saputo capitalizzare al massimo dal punto di vista propagandistico l’impopolarità del nuovo presidente americano agli occhi dell’ovattato mondo di Davos e la grande stampa occidentale c’è cascata in pieno facendo da cassa di risonanza alla propaganda di Pechino. Non solo gli Stati Uniti, anche l’Europa rifiuta ancora di riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato. E a ragion veduta. La Cina sostiene a parole il libero commercio, ma nei fatti è lontanissima da ciò che predica.

Poi, nei giorni scorsi, il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima annunciato dal presidente Trump proprio mentre era in corso il vertice Ue-Cina ha offerto ai leader europei e cinesi l’occasione di rivendicare (a parole, come vedremo) una sorta di leadership “morale”, politica e commerciale che colmerebbe il presunto vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Insomma, Trump avrebbe contribuito a rilanciare l’asse Ue-Cina e a farne i nuovi campioni del libero commercio e del clima.

Ma le cose stanno molto diversamente. Unione europea e Cina sono tra gli attori politici ed economici più protezionisti del pianeta e il loro vertice è stato un totale fallimento. Nessun accordo, né passi avanti tra Bruxelles e Pechino. Nessuna dichiarazione congiunta, nemmeno per esprimere la sbandierata sintonia sul clima, che infatti nella realtà non va oltre la condivisione della polemica nei confronti di Washington per la decisione di ritirarsi dall’accordo di Parigi ed è servita solo a mascherare il fallimento del vertice. Nessun passo avanti, per esempio, è stato compiuto su uno dei temi in cima all’agenda dei colloqui: l’accesso da parte europea al mercato cinese degli investimenti, oggi ostacolato dalle barriere protezionistiche di Pechino.

Il valore delle acquisizioni di compagnie europee da parte dei cinesi ha raggiunto nel 2016 il valore record di 48 miliardi di dollari (quasi il doppio rispetto al 2015) mentre, a causa delle restrizioni di Pechino nell’accesso ai suoi mercati, quelle europee in Cina sono crollate rispetto al 2013 e nel 2016 si sono fermate intorno al miliardo (dati Dealogic/Wall Street Journal). Secondo stime più caute, il rapporto sarebbe di 4 a 1 (35 miliardi di dollari il valore delle acquisizioni cinesi in Europa, +77% rispetto all’anno precedente, contro gli 8 miliardi da parte europea in Cina, in calo del 23%).

“Il commercio con la Cina dev’essere basato sulla reciprocità”. Alle compagnie europee dev’essere garantito un “uguale trattamento”. La “sovracapacità” cinese nella produzione di acciaio è un problema. Si tratta degli ultimi tweet del presidente americano Donald Trump? No, delle affermazioni, rispettivamente, del commissario europeo al commercio Cecilia Malmstrom, incalzata dal Parlamento europeo, della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente della Commissione europea Juncker, all’indirizzo dei leader cinesi.

Tuttavia, nonostante le promesse pubbliche, il regime di Pechino in questi anni ha fatto orecchie da mercante e non solo si rifiuta di garantire alle compagnie europee pieno accesso ai suoi mercati, ma di fatto elude anche ogni tentativo di iniziare una discussione vera in proposito. Anzi, secondo un recente studio, per le imprese europee il sistema economico cinese nel suo complesso è peggiorato nel corso degli ultimi anni. Invece di assistere ad una maggiore liberalizzazione, si aggravano le distorsioni provocate dall’intervento pubblico e le imprese europee si scontrano con una sorta di “età dell’oro” per i grandi gruppi cinesi a partecipazione statale. Gli stessi che riempiti di capitali pubblici vengono poi a fare shopping in Europa. Inoltre, con la scusa della cyber-security e del controllo della Rete, alle autorità governative è garantito accesso a dati industriali sensibili e ai progetti ad alta tecnologia delle imprese che operano in Cina.

Tutto questo sta alimentando una reazione protezionista nei governi e nei parlamenti europei, che stanno chiedendo alla Commissione europea nuovi strumenti di difesa commerciale, per esempio un meccanismo di controllo per vagliare gli investimenti stranieri in Europa. Le pressioni europee per proteggere industrie o settori di rilievo strategico e importanti per gli interessi di sicurezza nazionale si fanno sempre più incalzanti alla luce del vero e proprio shopping compulsivo soprattutto da parte cinese. I governi di Germania, Francia e Italia, cioè gli stessi in prima linea nel bacchettare Trump sul commercio, hanno chiesto alla Commissione europea di considerare un blocco generalizzato delle acquisizioni da parte di investitori non europei di compagnie ad alta innovazione tecnologica. “Siamo preoccupati della mancanza di reciprocità e della possibile svendita delle competenze europee”, lamentano i governi di Berlino, Parigi e Roma in una dichiarazione congiunta indirizzata alla Commissione Ue. “Occorre una soluzione europea… una ulteriore protezione”. La strategia di Pechino sembra funzionare infatti nell’aiutare le compagnie cinesi a ridurre il gap tecnologico con i concorrenti internazionali e secondo alcuni studi la Cina potrebbe essere in grado di colmare del tutto il gap di innovazione già dal 2020. Sta quindi guadagnando consensi in Europa la proposta di creare una versione europea del “Comitato sugli investimenti stranieri” statunitense, che ha il compito di indagare a fondo sugli investimenti stranieri in settori strategici e sensibili dell’economia.

Insomma, la “nuova via della Seta” annunciata in pompa magna da Pechino per espandere il commercio Europa-Cina, e celebrata dalla grande stampa europea come la definitiva adesione del regime al libero mercato in contrapposizione alle presunte chiusure americane, non è che un bluff che non incanta più nessuno.

Ed esattamente come il presidente Trump nei confronti dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, anche l’Unione europea sta agitando la minaccia di un mercato europeo più protetto, più chiuso, per convincere i leader cinesi ad aprire davvero il loro mercato. D’altra parte, se è vero come sostengono Stati Uniti ed Europa che la Cina non può ancora essere considerata un’economia di libero mercato (il che ne dovrebbe mettere in dubbio la stessa adesione al Wto), come può esserci un “fair trade”, una competizione leale e corretta? Se si ammette questo, tutto il dibattito sulla globalizzazione e le sue distorsioni prende un’altra piega, facendo apparire un po’ meno “liberale” chi la difende a spada tratta e un po’ meno “illiberali” coloro che parlano di riequilibrio e reciprocità.


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