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Fisco e digitale sono le chiavi di volta per la crescita

Baretta, populismo, giovani

Per contrastare la scarsa propensione agli investimenti, l’accumulazione delle risorse economiche, più in patrimoni immobiliari e in rendite a discapito degli investimenti produttivi, del lavoro e della redistribuzione è necessario, oltre a un rilancio della politica industriale, anche aggredire i ritardi che rallentano la crescita. Ne cito solo due.

Il primo è la digitalizzazione del Paese. Siamo in ritardo. Investiamo solo il 4,5% del Pil, contro il circa 7% della Germania e una media europea del 6,6. Finora, però sono stati stanziati circa 13 miliardi, senza contare quelli del provvedimento di Industria (forse sarebbe meglio chiamarla “Impresa”) 4.0. Si è riaperto, dopo anni di successi e anni di oblio, un dibattito sui distretti. Dobbiamo cogliere la novità e organizzarci. I distretti storici erano mono merceologici (del mobile, della scarpa, dell’occhiale, ecc.); oggi possono essere distretti tecnologici, che ospitano più attività merceologiche che sfruttano una comune piattaforma digitale. Si pensi a quanta maggiore vocazione territoriale possiamo valorizzare.

Il secondo: la semplificazione fiscale. La riduzione dei tempi di pagamento, almeno da parte del pubblico, che sta facendo progressi, e la fatturazione elettronica (che, però, non può, da un lato semplificare le  procedure, ma dall’altro aumentare i costi per realizzarla); lo sdoganamento a mare delle merci o l’autostrada digitale per le consegne delle merci sono segni positivi di un percorso che dobbiamo irrobustire.

Una struttura finanziaria efficiente che sostenga questa strategia è una delle strade per provare a fare di più noi. Il nostro Paese ha una grande risorsa che è il risparmio privato. Solo la parte mobiliare copre quasi due volte il debito pubblico. Ma la situazione attuale rende prudenti i risparmiatori. Dobbiamo favorire la circolazione della moneta, come dicevano i classici. Per farlo dobbiamo agire con due mosse.

La prima è completare il processo di riorganizzazione del sistema bancario. Dalla riforma delle banche popolari a quella del credito cooperativo, fino agli interventi annunciati per Mps e a quelli ipotizzati per le due Venete; all’acquisto da parte di Ubi delle tre fallite; alla ricerca di alleanze di altre piccole; all’urgente creazione di un mercato degli Npl, che stiamo favorendo, il sistema bancario italiano sta uscendo da un terremoto che ha bisogno ancora di un processo di riorganizzazione del lavoro e dei servizi. L’obiettivo di tutto ciò è un rapido ritorno a un regolare flusso di credito, soprattutto verso le famiglie e le imprese.

La seconda mossa è, però, altrettanto importante e matura: la diversificazione del credito. Importante perché può, oltre che offrire opportunità, essere di stimolo al sistema bancario per reagire positivamente. Non ho bisogno di citare qui i Confidi. Ma, penso al successo che stanno avendo i Pir o alla crescente importanza dei fondi pensione e delle casse di previdenza nel finanziamento dell’economia reale. La scelta di defiscalizzare del tutto il 5% degli investimenti che fondi e casse fanno a sostegno del tessuto produttivo e dei servizi del Paese è una svolta da sfruttare fino in fondo. Si dirà: ma il 5% è poco! Ebbene il patrimonio accumulato di fondi e casse supera, ormai, abbondantemente i 220 miliardi di euro. Beh, il 5% di 220 miliardi di euro è una bella manovra finanziaria.

Tutto quanto, però, nasconde, o rivela, il nodo di fondo che tutti vogliamo, ma fatichiamo a praticare: un’irreversibile e coraggiosa strategia di riforme. Siamo, alla fin fine, tutti, tutto sommato, un po’ diffidenti quando le riforme arrivano nel nostro campo. Siamo un po’ tutti esperti delle riforme degli altri…

È un po’ quello che è successo e che tende a ripetersi. A una forte e sincera domanda di cambiamento si alterna una paura del cambiamento. In questo alternarsi, la politica rischia di incartarsi. Per cui, per un malsano bisogno di consenso senza progetto, c’è chi tende a fomentare le paure o a inseguire obiettivi non sempre realistici. Sono molte le cose che mi hanno colpito delle scelte del presidente Trump in campagna elettorale e in questo primo periodo. Ma, devo essere sincero, quella che mi ha colpito di più non è la politica dei muri. Non la condivido, ma ci sta. Non è nemmeno l’abolizione dell’Obamacare. Penso sia un grave errore, ma fa parte delle scelte politiche. No, quello che mi ha colpito di più, e lo voglio dire in questa sede, è la disinvoltura con la quale ha affermato di voler abolire il Wto! L’Organizzazione mondiale del Commercio.

Che le istituzioni internazionali debbano essere riformate, e vale anche per l’Europa, è fuor di dubbio, ma pensare di abolire, in piena globalizzazione, ogni regola del gioco ha del clamoroso, ma anche dell’irrealizzabile.

È come se nelle democrazie mature la decisione nella scelta di una forza politica o di un leader non verta più sullo scegliere chi debba governare il Paese, con le sue complessità e asperità, ma chi possa nell’immediato placare le ansie, i malcontenti, che la crisi ha alimentato, offrendo lenitivi spesso degni di quell’elisir d’amore che “corregge ogni difetto, ogni vizio di natura”.

Se questo rischio, che non appare improbabile, dovesse consolidarsi, saremo di fronte a una tragedia politica, in quanto quello scarto tra attese e risultati, da cui siamo partiti, si accentuerebbe perché, passando inesorabilmente dalla semplificazione elettorale alla complessità del governo, chi governa è destinato, prima o poi, a tradire le promesse elettorali o le aspettative non governate.

È per questo che, al di là delle simpatie politiche, del tutto inesplorate, per la verità, è importante quanto è successo in Francia con l’elezione dell’europeista Macron e l’affermazione del movimento En marche alle elezioni legislative.

Dunque – e lo dico solo per sostenere un ragionamento di metodo, che va oltre le opinioni di merito su Macron, che, potremmo sostenere, va quasi oltre Macron stesso. Dunque, si possono vincere le elezioni senza rincorrere le paure, ma prospettando un orizzonte, non un confine; senza avvitarsi nel nazionalismo, pur amando la propria nazione o Patria (non si può dire che la straordinaria trovata dell’inno alla Gioia, con il quale ha inaugurato la sua presidenza, lo abbia reso meno francese); avendo a cuore i problemi, il disagio economico e sociale – quelle che con una suggestiva ed esauriente espressione Francesco chiama le periferie esistenziali – ma avendo a mente una sana economia sociale di mercato (altra espressione che sembra dimenticata…) e al tempo stesso garantire sicurezza e “protezione”.

Insomma, dopo la Brexit, dopo l’America, abbiamo temuto che l’onda d’urto, nazionalista e populista, fosse irreversibile. Ebbene, non è così, o, perlomeno, non è detto che sia così…


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