Se c’è una peculiarità nella struttura imprenditoriale italiana è la ridotta dimensione media d’impresa, per alcuni alla base del modello vincente del Made in Italy, per altri un limite alla possibilità di competere su scala globale. Il punto non è decidere chi abbia ragione, ma capire come aiutare chi vuole crescere e, allo stesso tempo, come offrire a tutti l’accesso – semplice e poco costoso – a strumenti utili per compiere l’indispensabile salto nella dimensione 4.0. Una sfida resa più difficile dalla distanza culturale che separa ancora troppe Pmi dalla Rete: secondo un’indagine Unioncamere, solo un’impresa su tre è attiva sul web, mentre per quattro imprenditori su dieci “Internet non serve”.
A fronte di questi dati poco incoraggianti si contrappongono, fortunatamente, fenomeni che stanno innovando l’imprenditoria italiana, come l’adozione di modelli collaborativi per una crescita dimensionale condivisa (è il caso delle 17mila imprese che hanno aderito a un contratto di Rete), o come la scommessa su un’idea di business innovativa, fra cui le start up e le Pmi innovative che, ad oggi, hanno superato le 7mila unità. Una delle caratteristiche che accomuna questi nuovi modi di fare impresa è l’attenzione all’informazione. Per gli imprenditori che ne sono protagonisti, information is king e i big data sono le chiavi di questo regno. A pesare sull’ampliamento della loro platea, tuttavia, c’è un malinteso di fondo e cioè che i big data non siano a misura di Pmi. A trarre vantaggio da questa rivoluzione, invece, se ne fossero più consapevoli, sarebbero proprio le imprese più piccole.
A queste, infatti, servono spesso dati e informazioni semplici e magari già disponibili e rapidamente accessibili da fonti pubbliche, come i registri delle Camere di commercio. Questi strumenti di vera democrazia economica sono tasselli di quel puzzle che chiamiamo big data, ma la buona notizia è che per usarli non bisogna avere tutta la scatola del gioco. La vera forza dei big data, infatti, è che ciascuno può usare solo quelli necessari per costruire la mappa del business che fa per sé. Un percorso oggi inevitabile non solo per chi accetta la sfida globale, come i protagonisti del Made in Italy, ma anche per chi ha come orizzonte più prossimo il proprio territorio; consapevoli che nell’era dell’iper-informazione e della post-verità, la qualità e l’affidabilità dell’informazione pubblica restano i valori centrali per rendere vivo il motto einaudiano “conoscere per decidere”.
Ad oggi sono 6.051.290 le imprese iscritte ai registri delle Camere di commercio; in pratica una ogni dieci abitanti. Di queste, il 99,9% rientrano nella definizione Ue di Pmi. In particolare, il 97,6% possono essere definite microimprese (con meno di 10 addetti), l’1,7% piccole (tra 10 e 50 addetti) e lo 0,5% medie (tra 50 e 249 addetti), lasciando che solo lo 0,1% (poco meno di 5mila imprese) superi la soglia della grande dimensione. Un quadro che si conferma – anche se con qualche significativa differenza – anche in riferimento al comparto manifatturiero, il vero serbatoio del Made in Italy. Qui le microimprese rappresentano “solo” l’83% del totale, mentre le piccole arrivano a sfiorare il 15% e le medie superano di poco il 2%.