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La politica estera americana secondo Trump

La prima lunga serie di incontri all’estero di Donald Trump è servita a delineare un primo quadro della dottrina dell’America first. Il deciso sostegno ad alleati storici quali Israele e Arabia Saudita, il rinnovato impegno per la soluzione della questione palestinese nonché il coinvolgimento diretto della Nato nella guerra all’Isis, sembrano porre questi primi passi dell’Amministrazione Trump in linea con la politica estera Usa degli ultimi decenni, più di quanto non lo fossero in realtà le linee di intervento dell’Amministrazione Obama in tali quadranti.

Quanto alla polemica sul surplus commerciale tedesco, anche questa sembra inserirsi, sebbene con toni più decisi, nel solco delle critiche rivolte in questi anni dall’Amministrazione Obama alla politica economica tedesca, giudicata troppo poco espansiva e rigidamente orientata ad imporre l’austerità in Europa. Eccezion fatta per il previsto e contestatissimo ritiro dagli accordi di Parigi sul clima, l’impatto “distruttivo” del ciclone Trump sulla scena internazionale annunciato dai media americani e da parte di quelli europei, sembra essersi ridotto ad alcune note di colore, legate all’irruenza e allo stile comunicativo del nuovo Presidente Usa.

Storicamente, si sono affermate ed alternate due diverse concezioni del ruolo che gli Stati Uniti devono assumere nel contesto mondiale. “Universalismo” ed “eccezionalismo” sono orientamenti opposti, entrambi radicati nella cultura politica statunitense, che hanno dato vita a due visioni dell’America nel mondo: l’America quale “crociato” e l’America quale “faro”.

Con la fine della guerra fredda, l’orientamento universalistico si è mescolato all’ideologia della globalizzazione, ma non sembra aver modificato lo schema strategico prevalente nel secondo dopoguerra. Sebbene in un contesto maggiormente integrato sul piano economico e meno diviso su quello ideologico qual è quello attuale, la visione politica dell’Amministrazione Obama e della classe politica democratica è sembrata riproporre una riedizione della “strategia del contenimento”, volta a spingere sempre più ad est i confini della Nato e a creare una “cintura di sicurezza” atta a contenere l’espansione cinese nel Pacifico. Una parte prevalente dell’establishment americano, che non si limita all’ambito democratico, ha avvertito il ritorno della Russia sulla scena internazionale, nonché il suo riavvicinamento alla crescente potenza cinese, come la principale minaccia alla pace e alla stabilità mondiale, ed ha riproposto lo schema strategico iniziale della guerra fredda. L’idea stessa che la Russia abbia potuto influenzare significativamente i meccanismi della democrazia americana, arrivando ad acquisire una reale capacità di condizionamento dell’Amministrazione Usa, dà la misura della effettiva percezione e della valutazione del pericolo da parte di ampi settori dell’establishment americano, nonché delle priorità ritenute strategiche in politica estera.

Con l’inizio della presidenza Trump si è avuta una virata, certamente decisa se non del tutto brusca, verso l’altro tradizionale orientamento del pensiero politico statunitense, ossia quello che individua nell’eccezionalismo americano l’elemento essenziale al quale ancorare ogni possibile visione di politica estera. Attribuendo all’Amministrazione Bush, repubblicana ma di rito neocon, l’errore concettuale di voler esportare la democrazia, Trump ha proposto una visione dell’America great again basata sulla difesa e sul perseguimento dell’interesse nazionale, ossia sull’America first.

Al fine di collocare nella giusta prospettiva quello che sembra configurarsi come un tornante tipico della storia americana, può essere utile volgere lo sguardo retrospettivamente all’epoca in cui presero forma molti dei riflessi strategici di cui oggi si percepisce un nuovo sviluppo.

Nel secondo dopoguerra la “dottrina del contenimento” affidava agli Stati Uniti il compito di arginare l’espansionismo sovietico – ritenuto il prodotto endemico di una commistione tra ideologia comunista ed espansionismo zarista – difendendo lo status quo lungo una vasta area che andava dall’Europa al Medio Oriente fino alle estremità del continente asiatico. Tale sforzo titanico avrebbe dovuto produrre, dopo una serie di conflitti periferici e apparentemente inconcludenti, il collasso del sistema comunista. La principale critica mossa da Winston Churchil e Walter Lippmann a quella che passò alla storia come “dottrina Truman”, fu di rinunciare ai negoziati nel momento di maggiore e riconosciuta forza relativa degli Usa, ossia nella fase di monopolio dell’arma atomica.

Fu Richard Nixon il primo Presidente americano a mettere in discussione la strategia del contenimento, determinando una svolta nella politica estera americana del secondo dopoguerra. Nixon, al pari di Theodore Roosevelt e a differenza degli altri Presidenti del ventesimo secolo, orientava la propria visione politica dei rapporti internazionali al raggiungimento di stabilità mediante l’equilibrio delle forze. Nella sua concezione, un’America forte era indispensabile ai fini dell’equilibrio globale. Alla base di questa dottrina strategica vi era la tradizionale concezione dell’eccezionalismo americano, nonché il richiamo costante all’interesse nazionale e ad una sua definizione nei termini del realismo politico.

Se i Segretari di Stato Acheson e Dulles, padri della dottrina del contenimento, non riconoscevano i leader sovietici quali controparti credibili, in quanto consideravano la tendenza al dominio mondiale come un aspetto congenito del sistema politico-ideologico sovietico, Nixon e Kissinger inaugurarono una nuova fase, passata alla storia come “distensione”. In questa nuova prospettiva, che rifuggiva da ogni rigido schema ideologico, la cooperazione sulle questioni nelle quali vi era maggiore sintonia veniva utilizzata come uno strumento utile a condizionare il comportamento sovietico sui temi viceversa oggetto di forte contrapposizione: la cosiddetta strategia del linkage. Tale strategia si dimostrò un approccio estremamente efficace in seguito alla straordinaria quanto inaspettata apertura americana alla Cina, autentico capolavoro di politica estera e forte incentivo alla moderazione per l’Unione Sovietica. In seguito alla convergenza cino-americana, l’Unione Sovietica si trovò minacciata dalla Nato ad Occidente e dalla crescente potenza cinese a oriente, e individuò nella distensione con gli Stati Uniti l’opzione più vantaggiosa. Il realismo politico e l’adozione dell’interesse nazionale quale criterio basilare della politica estera consentirono a Nixon di superare la disfatta del conflitto in Vietnam, proiettando nuovamente il proprio paese in una posizione internazionale dominante. È interessante rilevare come il settore della diplomazia americana abbia mostrato sin dall’inizio una netta contrarietà alla visione strategica di Nixon, in quanto si riteneva che l’Unione Sovietica avrebbe reagito duramente ad ogni tentativo di avvicinamento a Pechino, eventualità da scongiurare in quanto considerata un rischio troppo elevato per gli USA. Nixon realizzò l’apertura alla Cina inviando in segreto Henry Kissinger, suo consigliere per la Sicurezza Nazionale, a Pechino, escludendo di fatto il Dipartimento di Stato, verso il quale aveva in più occasioni mostrato mancanza di fiducia, dalle fasi più delicate dell’operazione.

L’approccio realista di Nixon consentì agli Stati Uniti di recuperare una preminenza strategica nei rapporti di forza con l’Unione Sovietica, superando la fase di estrema difficoltà in cui la guerra del Vietnam – conseguenza dell’azione di contenimento globale all’avanzata comunista – aveva precipitato il paese. È dunque evidente come, sebbene muti la strategia e la valutazione geopolitica, gli obbiettivi di fondo della politica americana permangono sostanzialmente identici. Universalismo ed eccezionalismo, in ultima analisi, non sono altro che due fisionomie differenti della stessa visione americana del proprio ruolo nel mondo, e si alternano mescolandosi a vari livelli e gradazioni.

Ritornando all’attualità del nostro tempo, la prima missione diplomatica all’estero del Presidente Trump sembrerebbe aver stabilito alcuni punti saldi attorno ai quali si svilupperà la sua azione politica.

Il rinnovato e pieno sostegno ad Israele, messo seriamente in discussione negli anni dell’Amministrazione Obama, fa capire quale sia l’assetto del Medio Oriente che la Casa Bianca immagina. Nessuna opzione geopolitica verrà considerata praticabile se in contrasto con la sicurezza dell’unica democrazia mediorientale, il cui ruolo in quel quadrante assume una ritrovata centralità nella visione americana. Il consolidamento dell’asse con Israele e il supporto in termini di forniture militari – che incrementa ulteriormente la dipendenza militare e tecnologica dagli Usa – all’Arabia Saudita, oggi in particolare difficoltà per la pressione nello Yemen e per gli sviluppi della situazione Siriana, convergono sull’obbiettivo di ridurre l’accresciuto peso dell’Iran nell’area. Dunque, le mosse mediorientali di Trump, tra le quali il coinvolgimento della Nato nella lotta all’Isis, hanno sancito la volontà di riacquistare un nuovo ruolo da protagonista nel quadrante meriodientale, ridimensionando il peso della Russia, dell’Iran e riconducendo nell’orbita dell’Alleanza Atlantica le recenti sortite di alcune nazioni europee. Quanto alle tensioni con la Germania, più che un mutamento della politica americana sembra profilarsi un tentativo di riposizionamento tedesco. Sebbene risulti al momento azzardato ipotizzare la nascita di una nuova “questione tedesca” in seno all’Occidente, considerate anche le esigenze di Angela Merkel connesse all’attuale campagna elettorale, è indubbio che si sia manifestato un chiaro impulso verso una divaricazione di prospettive tra le due sponde dell’Atlantico. Se già con la presidenza Obama erano stati evidenti i contrasti sul piano della politica economica, e lo scandalo Wikileaks aveva reso evidente come fosse la Germania il paese alleato più spiato dagli Usa, il comune impegno in Ucraina e verso un più generale contenimento russo avevano fatto passare in secondo piano le reciproche divergenze. Con la Presidenza Trump, viceversa, i contrasti di fondo sembrano destinati ad emergere nella loro dimensione reale. Dopo il crollo del muro di Berlino, le principali cancellerie europee, con in testa Parigi e Londra, si opposero apertamente al progetto di riunificazione tedesca. Gli Stati Uniti, al contrario, furono l’unico paese a sostenere sin da subito il progetto, a condizione che si fosse determinato nell’ambito della Nato e nella cornice rappresentata dalle istituzioni europee. A quasi trent’anni di distanza, di fronte alle sollecitazioni di un maggiore impegno finanziario e operativo all’interno dell’Alleanza Atlantica – in questo senso va anche interpretata la richiesta di coinvolgimento della Nato contro l’Isis – la Germania risponde con il frequente richiamo all’esigenza di costituire un sistema di difesa europeo. Non si tratta di semplici dichiarazioni di intenti, ma di un percorso già avviato: entro quest’anno la Romania integrerà la sua 81° brigata nella Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre una Brigata della Repubblica Ceca diverrà parte della 10° Divisione Corazzata Tedesca. Il timore che sembra essersi rafforzato in questi anni a Washington, nonché nelle opinioni pubbliche di numerosi paesi europei, è che dietro il paravento europeista la Germania stia sviluppando una decisa politica nazionalista che, sul piano economico, si traduce nell’imposizione rigida dell’austerità in Europa e, al contempo, nell’aggressività commerciale che ha originato livelli di surplus senza precedenti.

Sembra dunque emergere una progressiva divaricazione nello storico rapporto tra l’idea di Occidente e l’idea di Europa. L’unificazione europea, al pari di quella tedesca, si è sviluppata nell’ambito di una visione di rafforzamento dell’Occidente, di conseguenza, se potrebbe essere un azzardo parlare di una odierna “questione tedesca”, lo è molto meno parlare di una “questione Occidente”. Ed è proprio l’assenza di una visione chiara dell’identità occidentale e del suo futuro politico, il vero e più rilevante limite attuale dell’Amministrazione Trump, nonché il più importante banco di prova per l’immediato futuro. Nessuna concezione del ruolo dell’America nel mondo può prescindere dal suo rapporto osmotico e pervasivo con il contesto politico occidentale. La storica oscillazione americana tra universalismo ed eccezionalismo, tra idealismo e realismo politico, è destinata a stabilire il suo nuovo punto di equilibrio in primis all’interno ed in rapporto al mondo occidentale.

I prossimi mesi stabiliranno se l’Amministrazione Usa saprà essere in grado di dare la giusta prospettiva alla sua azione politica.



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