Nei giorni scorsi ci è toccato di assistere all’ennesimo tentativo da parte della sinistra di tirare per la tonaca Don Milani, complice il cinquantesimo anniversario della scomparsa del priore di Barbiana avvenuta il 26 giugno del 1967. Stavolta il ruolo di turiferaria (laica) è toccato alla ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, che come ha ricordato Maurizio Crippa sul Foglio, ha spedito un’improbabile circolare (maddai!) invitando corpo docente e discente a seguire in diretta una manifestazione su Don Milani e a leggere i suoi scritti. Il tentativo, dicevamo, non è nuovo e non sarà l’ultimo, tanto è consolidata nella galassia sinistrorsa (ma anche in certi ambienti catto-progressisti) l’immagine di Don Milani come “uno di noi”. Dove il “noi”, ovvio, deve intendersi come sinonimo della (presunta, ovvio come sopra) parte migliore del paese: la sinistra, appunto. Non per nulla nel pantheon religioso del movimento studentesco di sessantottarda memoria (movimento alla cui nascita, è bene ricordarlo, contribuirono anche ben precisi ambienti sedicenti cattolici), oltre a Marcuse e pochi altri c’era proprio Don Milani, già all’epoca icona e punto di riferimento di una movimento di rivolta e contestazione che pretendeva di incarnare il “vero” cristianesimo (il suo “Lettera a una professoressa” fu in assoluto il libro più letto in quegli anni). Insomma Don Milani non era morto che da un anno e già lo avevano fatto santo.
Santo subito, dunque, anche se ad elevarlo agli onori degli altari proto-rivoluzionari era stata una generazione di giovani, in maggioranza cattolici, che innescò la valanga del sessantotto più come conseguenza di una crisi di fede che a causa della fede. E questo mentre la chiesa, o meglio una parte della sua gerachia, non vedeva di buon occhio (per usare un eufemismo) quel giovane sacerdote. Col risultato che a Don Milani – in questo la sua vicenda è stata simile a quella di Pasolini con l’allora Pci – toccò in sorte di essere praticamente messo al bando e fatto oggetto di una damnatio memoriae durata mezzo secolo (e in parte ancora in vigore). Ma se è fin troppo facile dimostare gli errori della sinistra, di ieri come di oggi, nel voler portare Don Milani dalla loro parte, meno facile è prendersela con chi, dentro la chiesa, nutriva e nutre dubbi sull’esperienza pastrorale e didattica del priore di Barbiana. Che è e resta un’esperienza controversa, su cui molto c’è ancora da riflettere. E che chi scrive non giudica positivamente, per il fatto che ha contribuito, certo insieme ad altri fattori e certo involontariamente (almeno si spera), ad abbattere quel principio di autorità che è forse il frutto più marcio di quella stagione. Checchè ne pensasse Don Milani, l’obbedienza è ancora una virtù. Ed è anzi l’unico vero antidoto alla dittatura dell’Io e delle sue voglie, per dirla con Benedetto XVI. Non solo. Anche da un punto di vista squisitamente didattico, è tutto da dimostrare che la scuola di Barbiana sia stata un esperimento educativo di successo. Perchè se è vero, come ha scritto Crippa, che la scuola di Don Milani “era accogliente, ma tutt’altro che facile o non esigente”, e perciò stesso l’esatto opposto della scuola pubblica statale egemonizzata dalla sinistra che ha progressivamente spinto verso il basso l’asticella della formazione, è altrettanto vero che al pari dell’impostazione pedagogica della sinistra, la scuola di Don Milani era inficiata da una visione egualitaria – qui intesa come un diritto di tutti all’istruzione – che oltre ad essere, se possibile, più borghese che cristiana (e non sembri una contraddizione, è una costante della storia che le rivoluzioni siano sorte dall’alto e non dal basso), ha rappresentato di fatto un colpo micidiale alla meritocrazia (e forse non è un caso se la chiesa che oggi sembra guardare a Don Milani con occhi diversi, è la stessa che anche di recente, seppur in altro contesto, ha definito la meritocrazia un “disvalore” e la “legittimazione etica della diseguaglianza”).
Un colpo micidiale per altro in aperto contrasto con lo spirito della Costituzione la quale, spesso lo si dimentica, all’art. 34 recita: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Ecco il punto: i capaci e i meritevoli hanno diritto di andare avanti, non tutti. Nell’ovvio presupposto (ovvio per chi, come i padri costituenti, abbia una visione delle cose improntata al principio di realtà) che nella scuola, come in tutti gli ambiti della vita, esistono gli incapaci (io ad esempio non so dipingere nè cucinare nè ballare, è una colpa?) e chi non merita di andare avanti. Tra l’altro, si potrebbe far notare en passant che anche in questo caso è scattata implacabile, come per tutto ciò che è ideologico, la dura legge dell’eterogenesi dei fini di vichiana memoria. Perchè questa visione della scuola come un diritto ha finito per innescare una dinamica sociale fortemente penalizzante e discriminatoria tale per cui se non sei diplomato/laureato non vali un fico secco. Il che è oltremodo paradossale, se si pensa che la spinta verso un allargamento della sfera dei diritti è venuta, appunto, da quella sinistra che da sempre ha fatto della difesa dei più deboli il suo cavallo di battaglia. Tornando a Don Milani, forse il modo migliore per ricordare questo sacerdote che, comunque la si pensi, ha segnato un’epoca lasciando un’impronta importante nella vita della chiesa e della società, è di lasciarlo in pace senza appicicargli improbabili etichette. Di sicuro non gli farebbe piacere.