L’esito più probabile della crisi che si è aperta tra i Paesi arabi del Golfo è quello di una ricomposizione, con il Qatar che prende atto che le sue politiche “eterodosse”, non allineate a quelle dei suoi vicini sono ormai incompatibili con la nuova fase geopolitica che si è aperta con la visita del presidente americano Donald Trump a Riad e le nuove (vecchie) alleanze che si stanno formando. Per la piccola penisola che si affaccia sul Golfo si tratta di capire come salvare la faccia e, magari, anche guadagnarci qualcosina a titolo di indennizzo. Non mancano tuttavia margini di incertezza.
Se era inimmaginabile che una tale rottura fosse avvenuta senza il via libera di Washington, il presidente Trump ha esplicitamente rivendicato il ruolo degli Stati Uniti: durante i colloqui al vertice di Riad, focalizzati sull’impegno a contrastare ogni tipo di sostegno all’estremismo e al terrorismo islamico, i leader dei paesi arabi e sunniti hanno puntato l’indice verso il Qatar quale finanziatore del terrorismo (pur essendo anche di natura economica e geopolitica i motivi dei loro contrasti con Doha), ricevendo da Washington un esplicito incoraggiamento ad agire. “Ho deciso – in accordo con il segretario di stato Tillerson, i nostri grandi generali e il personale militare – che fosse venuto il tempo di chiedere al Qatar di finire di finanziare il terrorismo”.
Che dietro alla rottura ci sia il semaforo verde Usa da un certo punto di vista aumenta le possibilità di ricomposizione della crisi. Difficile, infatti, che a Washington non siano stati ben ponderati obiettivi e rischi di una mossa non solo approvata ma anche incoraggiata. Altrettanto difficile quindi che a Doha, con la quale gli Usa non vogliono rompere, verranno poste condizioni impossibili da soddisfare. Anzi, tutto sembra organizzato per far sì che Washington sia l’unica via d’uscita per l’emiro al-Thani. Il segretario di Stato Tillerson, e più dietro le quinte il capo del Pentagono Mattis (in Qatar ha sede una base militare americana centrale per le operazioni in Medio Oriente) si sono subito attivati per avviare una mediazione.
Ma non ci sono due linee nell’amministrazione Usa. In questo caso le parole di Trump non sono estrapolate da un tweet o frutto di un’uscita estemporanea, ma sono state lette da un testo preparato e fanno esplicito riferimento ad una linea condivisa con Dipartimento di Stato e Pentagono. Si badi infatti che il segretario di Stato Tillerson, durante la sua conferenza stampa sulla crisi, ha sì chiesto agli Stati arabi di “allentare” l’embargo contro il Qatar, ma ha usato le stesse ferme parole del presidente nei confronti di Doha, alla quale “chiediamo di rispondere alle preoccupazioni dei suoi vicini”. Ha ricordato che il Qatar “ha una storia di sostegno” a gruppi estremisti e violenti. “L’emiro del Qatar – ha concluso Tillerson – ha fatto progressi nel fermare il sostegno finanziario e nell’espellere elementi terroristi dal suo paese, ma deve fare di più e deve farlo più rapidamente”. Il che significa che Washington intende sì giocare il ruolo di mediatore, ma non neutrale, e che il ritorno allo status quo ante per Doha non è un’opzione sul tavolo. Non sarà un bis del 2014, quando il Qatar aveva promesso di cambiare i suoi comportamenti ma dopo un breve periodo di maggiore cautela era tornato al suo “business as usual” con i gruppi islamici radicali e nei suoi rapporti con Teheran. Il Qatar sa bene che non può uscirne senza soddisfare le richieste dei suoi vicini, almeno quelle su cui insistono anche gli Stati Uniti (basta finanziare l’estremismo e il terrorismo islamico, ridimensionare i rapporti con l’Iran), e che qui si esaurisce il suo margine di trattativa per limitare i danni e chiedere qualche “indennizzo”.
Se la mediazione funziona, e il Qatar si riallinea, l’amministrazione Trump potrà rivendicare un importante successo diplomatico e strategico: non permettere a Iran, Russia e Turchia di dividere gli alleati arabi dell’America. D’altra parte, qualcosa può sempre andare storto, anche perché i veri obiettivi e le “linee rosse” degli altri attori non sono completamente noti. La mossa non è totalmente priva di rischi, dal momento che costringe le due potenze regionali amiche del Qatar, che ambiscono a ridefinire a loro favore i rapporti di forza in Medio Oriente, ad uscire allo scoperto e ad esporsi. E infatti subito dopo l’apertura della crisi il ministro degli esteri iraniano è volato ad Ankara e i due Paesi si sono impegnati a sostenere Doha. Dal punto di vista dell’emiro al-Thani il sostegno iraniano è più realistico e concreto, ma politicamente meno praticabile. Accettarlo, allineandosi apertamente a Teheran, significherebbe varcare il confine tra mondo sunnita e sciita, quindi la sospensione o l’espulsione del Qatar dal GCC (Gulf Cooperation Council), il probabile addio della base militare americana, e forse anche la destabilizzazione politica interna. Un conto è avere interessi economici comuni, tutt’altro stringere con Teheran un’alleanza strategica contro i “fratelli” sunniti. Il sostegno diplomatico e retorico da parte turca è stato persino più sbandierato di quello iraniano, spingendosi fino all’aiuto militare. Ma nel medio-lungo periodo è anche meno realistico e concreto. Data la distanza geografica, Ankara non ha (ancora?) una sufficiente proiezione di potere per diventare il “protettore” di Doha rispetto ai suoi vicini arabi e agli Stati Uniti. Inoltre, per l’economia qatarina sarebbe insostenibile a lungo, troppo costoso, dipendere da spedizioni via mare e via aerea per quanto riguarda i beni di prima necessità. Sia pure improbabile, se l’Iran e anche la Turchia, pur essendo membro della Nato, decidono di alzare la posta e indurre il Qatar a resistere, entriamo in un territorio sconosciuto e pericoloso.
Se per i Paesi arabi del Golfo e l’Egitto che hanno fatto scattare l’ultimatum nei confronti di Doha l’espansione e le ambizioni egemoniche iraniane rappresentano la minaccia più immediata, a preoccuparli è anche l’attivismo di Ankara, il disegno neo-ottomano del presidente turco Erdogan, che si proietta verso sud. Ricordano fin troppo bene che prima del colonialismo europeo, il Medio Oriente è stato di fatto suddiviso tra i persiani e gli ottomani, con gli arabi marginalizzati. Per evitare il ripetersi di questo scenario, hanno bisogno di contrapporre alle mire egemoniche di Iran e Turchia un fronte arabo-sunnita compatto, che non può sopportare defezioni e tuttavia non può fare a meno – dal punto di vista militare ed economico – di una stretta cooperazione con Israele.
A pagare il prezzo della futura, probabile ricomposizione potrebbe essere Hamas, dal momento che proprio il sostegno alla Fratellanza musulmana da parte qatarina è tra i motivi principali della rottura delle relazioni diplomatiche con Doha. Il Qatar ha già chiesto ufficialmente ad Hamas di non usare il suo territorio per dirigere attività contro Israele. Anzi, secondo fonti israeliane e palestinesi concordi, due alti dirigenti di Hamas sono già stati espulsi dal Paese. Se l’embargo nei confronti del Qatar ha di tutta evidenza lo scopo di riallineare la sua politica estera a quella dei suoi vicini in un fronte anti-iraniano, uno degli esiti collaterali ma gravido di conseguenze, osserva uno dei massimi studiosi di politica estera americana, Walter Russell Mead, potrebbe essere quello di scalzare Hamas dal potere nella Striscia di Gaza, unificando i palestinesi sotto la guida di una più flessibile Fatah, che sarebbe economicamente e politicamente dipendente da un fronte unito di Paesi del Golfo.
In questo contesto, continua Walter Russell Mead, non si può escludere che il corso degli eventi non finisca per favorire la prospettiva di un qualche accordo tra israeliani e palestinesi. Un accordo, per esempio, che riconosca una sovranità araba sui siti sacri islamici di Gerusalemme e al contempo assicuri un’entità statale palestinese depurata da Hamas, sotto il controllo degli Stati del Golfo e dell’Egitto. Un esito che potrebbe soddisfare le esigenze di tutti gli attori coinvolti. Israele potrebbe contare sulla garanzia dei suoi alleati arabi sul comportamento dei palestinesi; gli arabi potrebbero salvare la faccia mentre rafforzano la loro intesa strategica con Israele; e l’Autorità palestinese ottenere il riconoscimento cui mira da decenni, ricevendo cospiscui finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo e l’Egitto e una “legittimazione religiosa” dai sauditi. Naturalmente le variabili in campo sono innumerevoli e non consentono di fare previsioni, ma il corso degli eventi potrebbe andare in questa direzione. E sarebbe certo una di quelle ironie che a volte la storia ci riserva, se l’eredità della politica estera di Obama dovesse essere un’alleanza arabo-israeliana in funzione anti-iraniana e una storica stretta di mano tra Netanyahu e Abbas sotto lo sguardo compiaciuto del presidente Trump.