Pubblichiamo un estratto dalla relazione finale di Marco Bentivogli, rieletto segretario nazionale della Fim-Cisl, presentata al congresso nazionale che si è tenuto il 7, 8 e 9 giugno
Chi ha paura della tecnologia? Noi no. Forse perché abbiamo a che fare con quei temibili robot che oggi Bill Gates vorrebbe tassare, fin dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Cosa facciamo? Tassiamo anche i bancomat? Le pompe di benzina, torniamo all’aratro a trazione umana? Dovremmo dire a FCA di smontare i 16 robot della Butterfly che saldano in pochi secondi la carrozzeria di una Jeep Renegade a Melfi perché rimpiangiamo di far respirare le esalazioni della saldatura ai lavoratori? O interrompere la sperimentazione dell’utilizzo di esoscheletri a Pomigliano per ridurre ulteriormente le criticità ergonomiche e il carico fisico? O alla Foxconn in Cina di non puntare sui robot e tenere le sue “splendide” catene di montaggio, il cui lavoro è sorvegliato da uomini armati, con tanto di reti anti-suicido, viste con i nostri occhi a Shenzhen, fuori dalle finestre dei dormitori?
La vera novità è che l’innovazione tecnologica riduce sempre di più il numero di lavori non-sostituibili dalle macchine, ma che ne creerà di nuovi. La vera novità è il grafico del World Economic Forum che indica che nel 2015 l’anno in cui il costo orario di un robot ha uguagliato quello di una persona. Quindi, cosa facciamo? Tassiamo il robot, o il valore aggiunto del suo contributo, per rendere più conveniente l’utilizzo della persona come propone Bill Gates? O non sarebbe invece più utile che i big della new economy pagassero, da qualche parte, le tasse? Il fatturato per dipendente di queste multinazionali è gigantesco rispetto alle multinazionali industriali manifatturiere ed è inversamente proporzionale al loro livello di tassazione effettiva.
Sarebbe più utile detassare il lavoro che tassare l’innovazione, anche perché quest’ultima non redistribuirebbe i maggiori profitti, ma metterebbe ancora più in ginocchio l’industria italiana, che ha bisogno come il pane di innovazione di processo e di prodotto. L’industria italiana ha perso 87 miliardi di investimenti privati, che sono andati alla rendita, ai settori protetti o all’estero.
L’idea che si sta affermando, di fabbriche come scatole vuote, con molta produzione e pochi lavoratori, è molto forzata. La questione è: ci sono previsioni a cui affidarsi con qualche ragionevole fondamento (che non siano iper-ottimistiche o catastrofiste)? Nella guerra di cifre il mondo va avanti e anche se fossero veritiere le peggiori previsioni, la narrazione di un futuro nefasto non lo migliorerà e neanche lo rallenterà. Darà solo un altro alibi ad un Paese in perenne ritardo e condannato a restare in panchina. In Italia interi settori, vedi l’elettrodomestico, sono quasi spariti per lo scarso investimento nelle tecnologie. L’esatto contrario del teorema dei catastrofisti. Tutti i reshoring di produzioni, anche grazie agli accordi sindacali, sono stati realizzati con un’iniezione ulteriore di nuove tecnologie, formazione e nuova organizzazione del lavoro.
In Italia, peraltro, la tassa sui robot graverebbe in modo inversamente proporzionale alla dimensione di impresa, già troppo piccola. La tassa non rallenterebbe la transizione, la precluderebbe definitivamente ai Paesi che dovessero immaginarla come un percorso verso una maggiore sostenibilità. Il nostro è un Paese che già di per sé si occupa solo del paracadute senza aver ancora imparato a volare.
Il catastrofismo fa molti più danni del liberismo. Se l’innovazione si gestisce con i tre step dell’italietta antagonista su tutto ciò che si muove: – regolarla, ipertassarla e, appena morta, sussidiarla –no grazie! È già stata la curvatura declinante dell’Italia in retromarcia.
Siamo il Paese che ha il più elevato gap di competenze rispetto alle skills del futuro. Ci occupiamo rapidamente di colmarlo, come abbiamo fatto nei metalmeccanici introducendo nel contratto il diritto soggettivo alla formazione, o prima ancora di aver giocato la sfida ci preoccupiamo di sussidiare gli effetti collaterali? Produciamo un sesto dei brevetti della Germania. Continuo a pensare che tra liberarsi dal lavoro e liberarsi nel lavoro, la seconda sia non solo l’unica strada virtuosa ma anche l’unica sostenibile. Fermare il progresso non è di sinistra, è velleitario, è pensare di fermare l’acqua con le mani, e serve a condannare una maggiore quantità di lavoratori all’esclusione sociale. C’è uno spazio di lavoro e di nuovo lavoro che le persone possono e potranno riempire con la loro energia insostituibile.
Bisogna giocarsi la partita ripensando integralmente l’idea di impresa e le sue finalità, il lavoro, i suoi orari, la sua sostenibilità intelligente nella vita di ognuno. C’è molto da fare se ci occupiamo di tutte queste cose, piuttosto che lasciare il campo alla paura e ai robot. Nel frattempo leggiamoci la Laudato si’: è molto più avanti del Mit e di Mc Kinsey.
Certo, le sfide per la dignità del lavoro non sono finite, e chiarisce da che parte sono e saranno sempre i metalmeccanici: lo sciopero totale della scorsa settimana a Bergamo appena è stato comunicato il licenziamento ad una ragazza in maternità.