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Stefano Rodotà, il rodotismo e l’ideologismo non marxista

Con la morte di Stefano Rodotà molte cose nel dibattito pubblico italiano non saranno più come prima. Il giurista di origine calabrese aveva infatti rappresentato, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita, un modo molto preciso, e anche di un certo successo e seguito pubblico, di vedere le cose della politica. Il rodotismo, diciamo cosi, aveva avuto la pretesa di rappresentare una sorta di ideologia politica, saldamente radicata (soprattutto nei ceti intellettuali o “riflessivi”), orientata fortemente a sinistra ma assolutamente non riconducibile al vecchio marxismo, in qualsiasi modo concepito. Una ideologia organicamente costruita su una visione della storia italiana passata, su una non effimera presa di posizione sulle tendenze del mondo globale (Rodotà aveva una indubbia competenza in campo bioetico e di diritto della comunicazione) e su un programma politico chiaro e lineare nella sua consequenzialità.

All’origine c’era una concezione dinamica della Costituzione italiana, considerata non tanto nel suo dettato preciso, frutto di un nobile compromesso storico fra forze politiche molto differenti il cui unico collante era rappresentato dall’antifascismo, quanto piuttosto in ciò che lasciava intravedere in prospettiva: una estensione senza limiti, accanto ai diritti politici, dei diritti civili e anche di quelli sociali. Una prospettiva di democrazia radicale che, seppur si incrociava con il tradizionale progressismo della sinistra, tendeva sempre più, da ultimo, a vedere nelle minoranze organizzate più che nella classe operaio il soggetto politico di riferimento.

Ciò che in questo passaggio, comune in verità a ogni forma di radicalismo, andava perduto era proprio quel senso della storia e del reale che aveva portato la vecchia sinistra a immettere i processi sociali di trasformazione nella dialettica e dinamica storica concreta. Qui, in una sorta di redivivo illuminismo, i diritti venivano invece concepiti in modo astratto, come pertinenti in quanto tali agli individui e ai gruppi che ne facevano richiesta in nome di una umanità disincarnata e avulsa da ogni concreto rapporto storico.

Il dirittismo, convertendo la lotta politica in una lotta per la conquista di astratte garanzie giuridiche, finiva per essere escludente di ogni minoranza non organizzata o individuo eccentrico (fosse anche in nome della tradizione) rispetto alla “normativizzazione” o “normalizzazione giuridica” dei rapporti politici. Un progetto, come quello del vecchio illuminismo, progressista e democratico certamente, ma altrettanto sicuramente poco liberale. La Costituzione prospettica, diciamo così, persa ogni realtà storica” diventava perciò una “Costituzione incompiuta”, “da realizzare” o “attuare” in nome di una “democrazia progressiva” che di fatto andava a cozzare con le tradizioni sedimentate nella famiglia, nel costume, nella vita sociale.

Di qui anche l’insistenza sulle “promesse tradite”, e sulla corruzione morale, prima che politica, di una parte non indifferente del popolo italiano. E di qui anche la convergenza di fatto del dirittismo, di Rodotà, ma anche di Zagrebelsky, non solo con la sempre viva tradizione azionista (si pensi al quotidiano “Ka Repubblica”) ma anche con l’antipolitica di forze come il Movimento 5 stelle con la sua retorica “anti-casta”.

Non fu perciò un caso che il professore, che aveva ricoperto cariche importanti nel potere della prima Repubblica, si ritrovò nella seconda quasi naturalmente prima sul fronte dell’antiberlusconismo ideologico (e non politico) e poi candidato (compiacente) al seggio quirinalizio da parte dei grillini. Ma questa è storia prossima, per quanto ormai idealmente lontana. Con l’avvento di Renzi tante cose, noi crediamo tante “catene”, si sono spezzate anche a sinistra. Anche se nella società, soprattutto intellettuale, i virus giustizialista e illiberali continuano a circolare senza solidi anticorpi a far da contrasto.


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