Lo scenario desolante e precario del Medio Oriente e dell’Asia sud-occidentale ha ricevuto un ulteriore scossone dalla missione del presidente Trump a Riyadh, e concomitanti visite in Israele, al G7 di Taormina e a Bruxelles.
Seguendo linee di politica estera impostate durante la campagna elettorale (poco chiare) e avvalendosi delle valutazioni dei suoi consiglieri (spesso mutuati anche dalla cerchia familiare) ha deciso di schierarsi con l’Arabia Saudita, contro l’Iran che ha dato un innegabile backing all’Occidente nella guerra di Siria, per la liberazione del Kurdistan iracheno e per combattere il jihadismo micronizzato che imperversa in Europa. Quell’Iran che a fatica, e con passi concreti riconosciuti dalla Iaea, si è avviato in un cammino di denuclearizzazione militare, frutto prezioso colto dal presidente Obama, che qui si loda comunque.
Tale decisione ha generato una reazione inattesa verso il Qatar (un gesto spettacolare di buona volontà oppure una abile mossa strategica e di immagine) coinvolgendo Egitto, Uae, Bahrein, non l’Oman che mantiene stretta neutralità e altre entità statali non dell’area. Che il Qatar abbia manifestato una certa assertività nei vari fronti (grandi riserve di gas e buon produttore di greggio, la vivacità comunicativa di Al-Jazeera, i campionati di football del 2022, gli investimenti importanti, anche in Italia, del Fondo sovrano, la multidimensionalità delle attività della Qatari Foundation guidata dalla Sheikha Moza, ecc. ) è fuor di dubbio, ma gli equilibri economici sono noti: il Pil dell’Arabia Saudita è di un fattore 10 superiore a quello qatariota, ma nell’ultimo decennio l’elasticità del Pil di Doha era il triplo di quello Saudita; una immagine plastica della diversa velocità della crescita si ha confrontando Jeddah nel 2007 e oggi (sede dei grandi investimenti per lo sviluppo della zona economica esclusiva) con Doha nel 2007 e oggi.
Bahrein e Qatar hanno, come noto, monarchie sunnite con importanti componenti sciite della popolazione, la maggioranza a Manama e un 10% a Doha, gli sciiti qatarioti per altro indistinguibili dagli arabi sunniti, quelli bahreiniti ben distinti in costumi, lingua e professioni. In genere le componenti sciite hanno una forte rilevanza nel settore dei commerci e dell’import-export, un asset irrinunciabile in Paesi monoproduzione.
Entrambi i Paesi hanno confini terrestri precari verso l’Arabia Saudita, un ponte il Bahrein e un lembo di terra il Qatar che però lo isola problematicamente dall’Emirato di Abu Dhabi.
È chiaro che il Paese della dinastia al-Thani abbia sviluppato una propria assertività, proteso come è nel golfo, completamente dipendente dalle importazioni di viveri, con un vicino, la Repubblica Islamica, con il quale sviluppare sull’aperto confine marittimo proficui scambi di beni di consumo a partire dalla indispensabile acqua potabile, di cui l’Iran è ricco.
Quindi scopriamo una galassia araba che non è monolitica e “appecoronata” a Riyadh ed è interessante notare il differente grado di imbarazzo di due organismi a genetica sunnita come la Lega Araba e il Consiglio di cooperazione del golfo (Gcc): la prima a guida Saudita esprime moderazione e lancia il Kuwait come elemento di mediazione delle dispute; il secondo a egemonia Saudita si allinea passivamente e sembra sposare la bislacca tesi di Trump che il terrorismo mondiale sia di matrice iraniana (anche se Teheran ha smesso di esportare la rivoluzione già alla fine degli anni ‘80) e ora, udite udite, qatariota per il sostegno dato alle moschee sunnite nei Paesi europei dove ora si “svolge” il nuovo terrorismo degli automezzi lanciati a folle velocita sulle folle (mentre sono notissimi ai Servizi europei anche gli ingenti contributi dati da Riyadh, dal Kuwait e persino dalla tranquilla Muscat alle moschee europee negli ultimi 20 anni). Naturalmente i contributi alle moschee e le stampe del Corano sono solo la punta visibile ed emergente dell’iceberg.
La Turchia, con il suo caos interno e con la stessa disinvoltura di quando durante la guerra Iran-Iraq conduceva commerci con entrambi i contendenti, ha offerto mediazione: forse è meglio rivolgersi altrove per trovare elementi di mediazione, d’altra parte i suoi rapporti critici con alcuni attori internazionali non la rende appetibile per mediare tra chi poi soprattutto non vuole essere mediato! Il messaggio, neanche tanto criptato, è che il presidente Erdoğan non voglia pregiudicare gli ottimi rapporti commerciali con Doha, dove esporta di tutto dal tessile ai semilavorati, dalla frutta e verdura alle carni halal, e il Qatar ricambia con ingenti investimenti immobiliari e nell’Horeca dislocati da Antalya sino a Istanbul.
Sposo la tesi che il conflitto Iran-Arabia Saudita riguardi in minima parte gli aspetti costitutivi basilari dei fondamenti salafiti-wahabiti di Ryiadh e quelli dello Sciismo duodecimano, una delle diverse varianti, di Teheran sui quali molto è stato scritto. Come sosteneva già negli anni ‘60 Louis Massignon, massimo esperto della Sorbona, “il conflitto tra le due sponde sarà a carattere geopolitico, territoriale ed economico”. Prima c’era un Iran che poteva avere il nucleare e che ha dietro di sé una storia culturale intensa, di qua di Hormuz ci sono state abili mosse dinastiche dei Saud, la tendenza all’equilibro di re Feysal e la forza dei petrodollari degli anni ad alta quotazione del greggio. Se mettiamo in tabella orizzontale negli ultimi 10 anni tre parametri “sociologici” come il numero di attentati interni, i diritti delle donne e il numero delle impiccagioni otteniamo il seguente schema sinottico:
Aggiungerei le considerazioni di una antropologa italiana, Tiziana Ciafardini, che ha vissuto a lungo nel Golfo e sostiene che il menzionatissimo feticcio tradizionale dello hijab ‘islami sia in Arabia un obbligo assoluto – in altre parole non si scorge un singolo pelo -, mentre in Iran anche i semiciechi avranno notato che si vedono sempre gli splendidi capelli delle iraniane e che lo scurf è solo un tributo di rispetto alla Repubblica e al Fondatore, così come ai maschi è impedito di girare in pantaloni corti e petto nudo, come fanno invece gli americani a via Veneto!
In generale sembra al momento di poter escludere, riguardo il terrorismo, la cosiddetta legge dei vasi comunicanti: cioè più si restringe l’area controllata da Daish intorno a Raqqa e verso il nord Iraq, più si allarga la macchia degli attentati di tipo non tradizionale che si stanno consumando a Londra, Bruxelles e Parigi. Sino a che non ci sarà l’annunciato rientro dei foreign fighters questa legge sarà priva di sostanza, gli ultimi accertati attentatori infatti non avevano rilevanti curriculum jihadisti nella Mezzaluna fertile e dintorni.
Il ministro degli Esteri iraniano Zarif si è mostrato sconcertato dopo le ultime dichiarazioni del presidente Trump sugli attentati – che sembrano compiuti da iraniani affiliati all’Isis – al Majlis e al Khomeini Shrine, poco a sud di Teheran: al di là del fatto che tutto è ancora possibile, anche un’interpretazione “endogena” di questi attentati non mi stupirebbe.
È vero anche che il confine iraniano non è così sigillato come per esempio quello degli Uae (dove premendo un pulsante vi possono dire chi è esattamente in quel momento nel Paese e con quale visto); ci sono infatti le aree del Khorasan, soprattutto del Beluchistan-Sistan ad est e del Kuzestan arabofono a sud che non sono propriamente impermeabili, specialmente a livello di migrazioni tribali.
Il convitato di pietra, Israele, di questo nuovo trambusto mediorientale naturalmente nel suo miope ostracismo verso Teheran, non esita a sedersi a mensa con sauditi e altri Paesi sunniti che, a vario titolo ed in tempi diversi, avevano finanziato Arafat, Hamas, Fratelli Musulmani e altre affiliazioni dell’Islam cosiddetto politico. Il “cosiddetto” è d’obbligo perché è in atto una revisione profonda dell’uso di tutte le categorie tassonomiche della cultura occidentale che male si adattano alla realtà araba e islamica; pensiamo solo alla insignificanza del concetto di “Islam moderato”.
Questa scelta, benché contrastata debolmente dalla Ue che purtroppo conta in quest’area meno del due di coppe, avrà effetti destabilizzanti e rallenterà ancora di più il processo di ricerca di un equilibrio ancorché minimo in quell’area tra Paesi ricchi e poveri, tra sunniti e sciiti, tra minoranze etniche e maggioranze militarizzate sino ai denti.
Vorrei citare a conclusione un consigliere politico repubblicano al Parlamento di Albany (Nys) Joseph Messina: “Abbiamo votato turandoci il naso Trump, egli ha spaccato il Partito Repubblicano al punto che oggi se si votasse vincerebbe la Clinton con un forte scarto; il popolo americano, anche e soprattutto quello della America First, sente che l’impegno e il protagonismo americano nei teatri nevralgici del mondo, il Medio Oriente per le guerre e il terrorismo, la Cina per i rapporti economici e commerciali, debba essere rivisto con cambiamenti e variazioni drastiche rispetto alla tradizione interventista sin qui consolidata, ma il popolo americano ha voce ogni quattro anni”.