È inutile negarlo: anche da noi l’antisemitismo gode di buona salute. Basta leggere le reazioni deliranti e oscene suscitate dalla proposta (che pure non condivido), avanzata da Emanuele Fiano, di ridefinire il reato di apologia del fascismo. Del resto, al pari della mamma degli imbecilli, quella degli antisemiti è sempre incinta (anche perché è la stessa). Ma, dopo lo sdegno che suscitano i grassatori della verità storica come il deputato fittiano, ex Msi, Massimo Corsaro (nella foto), non bisogna perdere di vista il loro obiettivo politico: mettere in discussione il diritto di esistere dello Stato d’Israele. Nel 2012 è stato pubblicato un libro di Bernard Wasserstein che meriterebbe di essere tradotto in Italia: On The Eve: The Jews of Europe before the Second World War (“Alla vigilia: gli ebrei d’Europa prima della Seconda guerra mondiale”).
Non è vero – spiega l’eminente studioso inglese – che gli ebrei del Vecchio continente aspettavano passivamente lo scatenarsi della Shoah. Al contrario, cercavano di affrontare la minaccia in tutti i modi possibili: alcuni con l’assimilazione, altri con l’emigrazione, altri ancora con la conversione; alcuni si chiusero in un ghetto culturale, altri divennero comunisti, socialisti, liberali e perfino fascisti. Tutti cercavano di essere protagonisti della propria storia, senza però essere mai abbastanza forti per diventare padroni del proprio destino. Lo sono diventati con la creazione dello Stato di Israele. Mi sembra quindi stravagante chiedere a un popolo di rinunciarvi, come traspare da alcune risoluzioni dell’Unesco e fanno tanti intellettuali europei engagés, in nome di una coesistenza pacifica da un altro popolo negata in via di principio.
Recensendo il volume di Wasserstein (Il Sole 24 Ore, 17 marzo 2013), lo storico Donald Sassoon ha riproposto una questione antica: cosa vuol dire essere ebreo? È una questione di religione, di etnia, di lingua? Non conosco l’ebraico, non sono credente, non sono sionista, quindi – si domandava Freud – cosa mi rimane di ebreo? “Moltissimo… probabilmente – replicava – l’essenza stessa dell’essere ebreo”. Anche se poi ammetteva di non riuscire a esprimere chiaramente a parole questa misteriosa essenza. Dal canto suo, quando Kafka si chiedeva cosa avesse in comune con gli altri ebrei, rispondeva identificandosi con gli ebrei perseguitati, con la lotta contro ogni forma di antisemitismo. Io, che (purtroppo) non sono Kafka e non sono nemmeno ebreo, oggi direi la stessa cosa.