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Mps, Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Ecco quanto costeranno al Tesoro

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L’Unione bancaria (Ub) è stata l’iniziativa forse più rilevante attuata dalle istituzioni europee dopo la costituzione dell’euro. Si è trattato di un processo complesso ma rapido. Lanciato dall’Eurosummit di giugno 2012, tale processo ha definito il proprio quadro normativo fra la fine del 2012 e il 2013. Gli obiettivi originari, perseguiti dall’Ub, erano due: spezzare il circolo vizioso fra crisi dei debiti sovrani e crisi del settore bancario; costruire un mercato bancario unico nell’eurozona. I risultati finora raggiunti sono parziali, perché l’Ub non è stata completata e la sua costruzione ha sottovalutato il peso di eredità problematiche.

Partiamo dall’incompletezza dell’Ub. Il processo di risoluzione delle crisi bancarie, che è al cuore del suo secondo pilastro, non poggia su un meccanismo pubblico di ultima istanza in grado di fronteggiare casi di instabilità, non superabili mediante il coinvolgimento di una parte dei creditori privati e il ricorso al fondo unico di risoluzione. Manca inoltre il terzo pilastro incentrato su uno schema europeo di garanzia dei depositi bancari (Edis). Superare queste incompletezze non è facile perché richiede un equilibrio tra condivisione e riduzione dei rischi. Per esempio: la Germania e altri Paesi core dell’eurozona si oppongono alla creazione dell’Edis, che è un meccanismo di condivisione dei rischi, perché i settori bancari di alcuni Stati membri più fragili (in primis, dell’Italia) accusano un’eccessiva esposizione rispetto ai titoli pubblici nazionali. La condizione è, perciò, di ridurre tale fonte di rischio prima di costruire l’Edis. La richiesta italiana è opposta. Di qui, una situazione di stallo.

L’esempio fatto andrebbe utilizzato per sottolineare l’intreccio fra incompletezza dell’Ub e problema della legacy. Per vincoli di spazio, qui affronto direttamente il secondo elemento di fragilità: la sottovalutazione del peso degli stock. È ormai noto che l’Ub prevede il coinvolgimento non solo degli azionisti, ma anche di un’ampia tipologia di creditori privati nella ristrutturazione o nella liquidazione delle banche in crisi (bail-in). L’introduzione del bail-in ha implicato che i detentori di titoli bancari (tipicamente, obbligazioni junior e senior) prima caratterizzati da forte illiquidità ma da contenuti rischi di controparte, abbiano subìto un’imprevedibile impennata nella loro esposizione al rischio. L’impatto sociale è stato particolarmente acuto per l’Italia in quanto, negli anni 1999-2010, le nostre banche avevano collocato un abnorme ammontare di obbligazioni nei portafogli delle famiglie.

Il principio del bail-in è, di per sé, condivisibile perché limita il ricorso al bail-out, ossia alla pubblicizzazione delle perdite private a spese della collettività. La sua adozione nell’Ub è stata, però, così repentina da impedire un graduale riassorbimento di distorte posizioni pregresse. Per giunta, forse per evitare fenomeni di panico, nel caso italiano si è scelto di non denunciare subito la novità e la connessa vulnerabilità di quote significative di risparmiatori. Solo il collasso delle quattro banche regionali o locali (novembre 2015) ha aperto gli occhi ai possessori di obbligazioni bancarie. Da allora le iniziative, assunte per gestire i problemi bancari italiani, sono state condizionate da tale situazione.

Il caso delle banche venete è emblematico e chiude, idealmente, una lunga catena di scelte governative inefficienti e costellate da svariate vittime (prima fra tutte, i fondi Atlante). Ad oggi il quadro non è ancora ben delineato. Intesa Sanpaolo si è candidata per acquistare alcune poste in bonis delle attività e passività di Veneto Banca e di Popolare di Vicenza alla cifra simbolica di 1 euro. Per finalizzare la sua disponibilità, essa richiede però che il governo italiano approvi norme atte a garantire la neutralità di questo acquisto per i suoi coefficienti patrimoniali e per la sua redditività di breve termine. Lo Stato italiano dovrebbe, cioè, coprire i costi di razionalizzazione e integrazione delle parti “sane” delle due banche fronteggiati da Intesa Sanpaolo. Soprattutto, esso dovrebbe addossarsi l’onere di tutte le poste problematiche, passate e presenti, delle due banche venete; la gestione, tramite il rifinanziamento del fondo esuberi, dei dipendenti in eccesso; la copertura del contenzioso connesso a obblighi pregressi e così via. Al fine di legittimare interventi di così ampia portata, il governo italiano sarebbe in procinto di emanare uno o due decreti per estendere la cosiddetta legge salva-risparmio (dicembre 2016) al nuovo caso e per approntare una sorta di liquidazione coatta di Banca popolare di Vicenza e di Veneto banca.

Un primo conteggio, fatto sul retro di una busta, induce a prevedere che soluzioni del genere addosseranno al pubblico un onere diretto superiore ai 10 miliardi. Questa cifra tenderà, poi, a lievitare a causa degli effetti indiretti. Infatti, come negare ai dipendenti del Monte Paschi di Siena di accedere al rafforzato fondo esuberi; perché i finanziatori di altre banche italiane in difficoltà dovrebbero sobbarcarsi costose ricapitalizzazioni invece di acquisire a 1 euro le relative poste in bonis? La soluzione, che si sta prospettando per le due banche venete, apre la porta a un sistematico processo di bail-out. Se non nella forma, certamente nella sostanza, si tratta di un intervento che lede l’attuale normativa europea.

I problemi del settore bancario italiano sono difficili da risolvere e l’Ub presta il fianco a critiche. Eppure, un punto deve risultare chiaro: le nuove regole bancarie europee avrebbero consentito all’Italia di effettuare trasparenti interventi pubblici con modesti impatti sul bilancio. Viceversa, effettuare un bail-out mascherato ai tempi del bail-in non gioverà né alla reputazione né ai conti pubblici del nostro Paese.

(Analisi pubblicata sul numero di luglio della rivista Formiche)

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