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Ecco i benefici per l’Italia del ritorno renziano a Maastricht

Ritornare per cinque anni ai parametri di Maastricht, con il rapporto deficit/pil al 2,9% per non infrangere il tabù del 3%, avendo a disposizione 30 miliardi di euro complessivi per ridurre la pressione fiscale e rimodellare la strategia di crescita. Questa è, in sintesi, la strategia di finanza pubblica proposta da Matteo Renzi nel suo libro intitolato Avanti, in libreria da mercoledì scorso, con l’obiettivo di portare la dinamica annua del pil reale al 2%, raddoppiando così la velocità prevista finora. Nel contempo, si dovrebbe sforbiciare il debito pubblico con un pacchetto di privatizzazioni del patrimonio, rimettendo in pista il piano messo a punto tempo fa da Astrid ed il progetto Unicorn che coinvolge il Demanio e la Cassa Depositi e Prestiti. Si tratterebbe di un maggior deficit annuo di 6 miliardi di euro rispetto a quello previsto inizialmente per quest’anno, pari al 2,3% del pil, prima che si intervenisse con la correzione strutturale di metà aprile che l’ha ridotto al 2,1%.

Le polemiche, come era ovvio, non si sono fatte attendere: non c’è nulla di più politico delle scelte di bilancio. Una riduzione generalizzata delle imposte, di stampo reaganiano ed ora trumpiano, è già stata respinta dalla sinistra, mentre Giorgio La Malfa ha rilevato che una strategia di deficit così prolungata, per cinque anni, è eccessiva. Inoltre, una dotazione aggiuntiva di appena 30 miliardi di euro, diluita in un periodo così lungo, è ben poca cosa: occorrerebbe concentrare gli sforzi in un biennio.

E’ una questione che riguarda la prossima legislatura: così, dopo una prima violenta fibrillazione a via XX Settembre, si è evitato un incidente di percorso con la strategia del Tesoro, che ha già chiesto alla Commissione europea un atteggiamento flessibile in vista della prossima legge di bilancio, ammettendo una correzione strutturale dello 0,3% del pil, anziché dello 0,6% che residua per via degli effetti di trascinamento della manovra di metà aprile, rispetto allo 0,8% previsto dal Def 2017 presentato dal governo Gentiloni. Verrà concessa la massima flessibilità possibile, questa è stata la risposta anticipata verbalmente dal Commissario agli affari economici e finanziari Pierre Moscovici, sottolineando la necessità di perseguire comunque l’obiettivo di ridurre il rapporto debito/pil.

Il nodo del debito pubblico italiano rimane dunque cruciale soprattutto in un contesto in cui la Bce sta per concludere il Qe, dopo aver già ridotto da 80 a 60 miliardi di euro mensili, e la Fed è pronta ad alleggerire il suo bilancio dall’enorme portafoglio di titoli pubblici accumulati nel corso di ben tre operazioni di allentamento quantitativo.

Ci troviamo, nuovamente, in mezzo al guado.

Da una parte il governo vuole tener fede agli impegni assunti con la adesione al Fiscal Compact, ancorché attraverso una metrica di risanamento meno feroce di quella che ne ha caratterizzato l’avvio. Il pareggio strutturale dei bilanci pubblici non si raggiunge così facilmente come si era immaginato inizialmente, addirittura nel 2013 per l’Italia, perché i rischi di una recessione continentale sono sempre in agguato e quelli di una deflazione generalizzata non sono meno pericolosi: nel rapporto debito/pil, che va ridotto, sono fondamentali sia la crescita reale che quella dei prezzi.

D’altra parte, nel mondo non spira neppure un vento travolgente di keynesismo: il moltiplicatore fiscale, in questi anni, si è dimostrato di gran lunga inferiore all’unità nel caso di una politica espansiva, vista la propensione delle famiglie a ridurre l’indebitamento piuttosto che ad aumentare le spese, anche in condizioni di maggiori disponibilità liquide; di converso, ogni input costrittivo del bilancio pubblico ha comportato un impatto negativo sul prodotto ampiamente superiore ad ogni precedente storico. Non c’è fiducia nelle prospettive: mentre ogni miglioramento viene considerato transitorio, ogni peggioramento viene percepito come strutturale.

Vediamo quindi, che cosa cambierebbe rispetto alla situazione prevista oggi. Il Def 2017 considera per quest’anno un aumento del pil pari all’1,1% ed una identica variazione del deflatore, con un nominale che va così al +2,2%. Per il 2018 si prevede un pil al +1% ed una crescita del deflatore dell’1,7%. Nel 2019 e 2020, il pil crescerebbe rispettivamente dell’1% e dell’1,1% mentre il deflatore sarebbe pari all’1,9% e poi all’1,7%.

Per quanto riguarda il percorso di raggiungimento del pareggio strutturale, previsto nel 2020, il Def si proponeva obiettivi estremamente ambiziosi, con una correzione dello 0,8% del pil nel 2018, da ripetere nel 2019. Il saldo primario, al netto degli interessi, dovrebbe migliorare dall’1,7% del pil di quest’anno al 2,5% del 2018, per salire ancora al 3,5% del 2019 ed al 3,8% del 2020. Il rapporto debito/pil scenderebbe così dal 132,5% di quest’anno al 131% del 2018, poi al 128,2% nel 2019 ed infine al 125,7% del 2020, in un contesto in cui il rapporto deficit/pil passa dal 2,1% rettificato di quest’anno all’1,2% del 2018, poi allo 0,2% del 2019, per arrivare a zero nel 2020.

C’è una diretta correlazione tra deficit, andamento del pil nominale, e rapporto debito/pil. Quest’ultimo migliora, come si può constatare dalle statistiche storiche, solo quando il deficit del bilancio è percentualmente inferiore alla crescita nominale dell’economia. Di questa dinamica c’è riscontro anche nel Def 2017. Quest’anno, ad esempio, la politica di bilancio è sostanzialmente neutrale: il deficit va infatti completamente a pareggiare l’aumento del 2,3% del pil nominale, cosicché la variazione migliorativa nel rapporto debito/pil rispetto al 2016 dovrebbe essere appena dello 0,1%, passando dal 132,6% al 132,5%. Nel 2018, anno in cui invece si prevede un deficit dell’1,2% a fronte di una variazione del pil nominale del +2.7%, il miglioramento del rapporto debito/pil si farebbe più consistente: sarebbe dell’1,5%, passando dal 132,5% del 2017 al 131%. Nel 2019, con un deficit dello 0,2% a fronte di una crescita nominale del 2,9%, il rapporto debito/pil migliorerebbe del 2,8%, passando dal 131% del 2018 al 128,2%. Infine, nel 2020, anno in cui è previsto un deficit pari a zero ed una crescita nominale del 2,8%, il miglioramento del rapporto debito/pil arriverebbe al 2,5%, scendendo dal 128,2% del 2019 al 125,7%.

Con un bilancio arrivato finalmente al pareggio, una situazione in cui ci si limita al rinnovo del debito in scadenza ed il servizio degli interessi è interamente garantito dall’avanzo primario, il ritmo di contrazione del rapporto debito/pil dipenderà unicamente dall’andamento del pil nominale. Il punto critico sta nella dimensione dell’avanzo primario, che va a coprire integralmente l’onere degli interessi sul debito: all’orizzonte del 2020, le due entità dovrebbero appaiarsi, arrivando al 3,8% del pil. E’ un onere rilevante per l’economia difficilmente sostenibile nel lungo periodo.
Raddoppiare la crescita reale è dunque un obiettivo sicuramente ambizioso. Un deficit al 2,9% per cinque anni, se fosse in grado di innescare la dinamica auspicata, portando la componente reale dall’1% al 2% e l’inflazione stabilmente intorno al 2% (livello ritenuto ottimale anche dalle banche centrali) e quindi ad una crescita nominale annua del 4%, sarebbe compatibile con una sia pur moderata riduzione del rapporto debito/pil, nell’ordine dell’1% annuo, per merito del raddoppio della componente reale della crescita. E se fosse accompagnata, come pure si prospetta nel libro di Renzi, da una consistente riduzione del debito pubblico mediante operazioni straordinarie sul patrimonio, si potrebbe ampiamente recuperare la dinamica di riduzione del debito attualmente prevista e contrastare la ritrosia dei mercati ad accettare un aumento del deficit rispetto alla prospettiva finora perseguita.

Politiche di bilancio solo congiunturalmente espansive sul versante fiscale non sono in grado di modificare le tendenze di fondo degli operatori economici: le sole astratte discussioni sul ripristino dell’Imu sulla prima casa hanno già un effetto pertubativo rilevante. Anche le continue riforme della pubblica amministrazione procurano nel breve periodo più confusione che maggiore efficienza ed effettivi risparmi.

Anche l’Unione europea sta finalmente accettando ritmi meno incalzanti nei processi di risanamento dei bilanci pubblici. Il rischio è che anche quel minimo di crescita che si è riusciti a recuperare non abbia la solidità necessaria per affrontare i passi ulteriori che si devono compiere: l’1% previsto dal qui al 2020 è una velocità troppo bassa, basta un nonnulla e si torna in stallo.

Il meccanismo del Fiscal Compact si è dimostrato troppo severo, troppo complesso e di applicazione troppo incerta. Veniamo da una cura da cavallo, che ha portato più danni che altro. Ciò che serve non è una tregua nel processo di stabilizzazione delle economie europee, ma un metodo condiviso che si adatti meglio alle diverse circostanze ed ai diversi Paesi. Un limite al deficit annuo che sia pari al 75% della crescita nominale potrebbe essere sufficientemente severo per contenere il debito senza però strangolare la dinamica dell’economia: la proposta di Matteo Renzi ci rientrerebbe a pieno. D’altra parte, la regola standard del 3%, sottesa al limite per il deficit imposto nel Trattato di Maastricht, partiva dalla fisiologia di una dinamica nominale del pil al 5%, e di un correlativo rapporto debito/pil al 60%. Senza crescita non c’è né stabilità sociale, nè finanziaria. E solo una maggiore domanda interna, fondata su riduzioni strutturali della tassazione, porterà ad investimenti sostenibili. Oggi, infatti, la capacità produttiva è ampiamente esuberante rispetto alla domanda.

Quello di Maastricht, anche sul debito, fu un compromesso onorevole tra severità e flessibilità: d’altra parte, le finanze pubbliche europee sono state scassate dalle crisi finanziarie e bancarie, ma non sono state loro a creare il disastro. La proposta di tornare a quei criteri ha sicuramente un merito: è una sfida, quella di costringere tutti a riflettere, a confrontarsi con la realtà e con la Storia. Qui ed ora.


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