Skip to main content

Ecco come la Cina sta armando di droni da guerra l’Africa (e non solo)

L’operazione è partita già da diversi mesi. In sordina e senza clamore diversi Paesi africani, mediorientali e del Sud-est asiatico alleati degli Stati Uniti hanno acquistato droni da guerra dalla Cina, dopo aver tentato inutilmente di importarli dagli Usa. La scoperta è stata fatta dal Wall Street Journal che svela come dallo scorso ottobre i satelliti americani abbiano ripreso tre droni da guerra fabbricati dalla cinese Chengdu Aircraft Industry Groupun’azienda specializzata in velivoli militari che fa parte dell’Aviation Industry Corporation of China, compagnia di proprietà statale attiva nel campo della difesa – in fase di decollo su una pista saudita, nell’ambito della campagna aerea di quel paese contro i ribelli Houti nello Yemen.

Sempre ad ottobre – scrive il quotidiano americano – “un drone cinese CH-4 Rainbow è stato fotografato su una pista di decollo in Giordania, non lontano dal confine siriano”. Da allora i satelliti hanno ripeso droni cinesi in azione anche in Egitto e negli Emirati Arabi Uniti. Allarmando proprio l’amministrazione di Donald Trump perché non è la prima volta che il governo di Pechino vende droni militari laddove ci sono focolai di guerra in Africa e Medio Oriente. In particolare per gli Usa, scrive il quotidiano, si tratta “di un brutto colpo non solo commerciale ma anche strategico”. Un brutto colpo che però è autoinflitto. “Da tempo, infatti, gli Stati Uniti limitano l’esportazione dei loro droni nel timore – spiega a Formiche.net Gregory Alegi docente nel Dipartimento di Scienze Politiche di Storia delle Americhe alla Luiss – che possano essere utilizzati da regimi non democratici contro i civili, oppure, per quanto riguarda il contesto mediorientale, che possano minare la superiorità militare israeliana”.

Pechino, però, non si pone questo genere di problema, e sta rapidamente colmando il vuoto di mercato con i suoi modelli, copie più o meno accurate dei droni Predator e Reaper che vende però sempre sottocosto con l’obiettivo proprio di influenzare i paesi che compiono l’acquisto.

Lo scorso novembre, durante l’International Aviation and Aerospace Exhibition, a Zhuhai, l’Accademia di Tecnologia e Scienze Aerospaziali ha svelato il Cai Hong 5, definito in patria come il drone più potente del mondo. Secondo le poche informazioni diramate, questo modello sarebbe in grado di volare per ventimila chilometri senza rifornimento, con un’autonomia stimata di 48 ore. Il CH-5 è il più grande drone da combattimento della Cina ed è per gli esperti del settore anche una perfetta copia del Reaper MQ-9 degli Stati Uniti. Il CH-5 è in grado di trasportare bombe intelligenti, missili e disturbatori radar di nuova concezione.

A quanto pare l’intelligence americana ha anche scoperto che lo scorso anno gli iracheni hanno testato in battaglia contro l’Isis, nella provincia di Anbar, il loro primo drone da combattimento comprato proprio dalla Cina. Non si sanno bene i termini dei contratti siglati tra Baghdad e Pechino, ma i cinesi dovrebbero aver venduto, in un numero imprecisato, sia la versione da combattimento (CH-4B) che quella da ricognizione (CH-4A) con un’autonomia stimata in 40 ore di volo.

“La Cina è già influente – conclude Alegy – con la politica dell’aiuto a questi stati e l’esportazione di queste tecnologie di fatto finisce per stringere legami sempre più influenti con questi governi. Ma non è una novità. Gli Stati Uniti come policy sono molto restrittivi a cedere la loro tecnologia, figuriamoci nel campo militare. Perfino all’Italia, ad esempio, un alleato storico e affidabile l’amministrazione americana già sotto Obama ha voluto negare a lungo i droni armati e, come risposta, noi ce li siamo costruiti da soli. È utile questa politica? Se da un lato così gli Usa controllano la loro produzione evitandone anche la possibile clonazione non possono dall’altro arrestare un fenomeno che è già in atto. Per questo i cinesi diventano fornitori naturali di questa tecnologia spesso venduta anche sottocosto. L’Aia – Associazione Industria Aeronautica americana – è da anni che segnala questo tipo di problema: se non si allentano i nodi alle esportazioni è chiaro che altri soggetti, Cina in testa, poi se ne approfittano con tutte le conseguenze che ne derivano”.


×

Iscriviti alla newsletter