La decisione dell’amministrazione Trump, rivelata nei giorni scorsi dal Washington Post, di porre termine al programma segreto della Cia di sostegno militare ai ribelli anti-Assad “moderati”, voluto e preparato da Obama (e dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton), tra il 2012 e 2013, non è una mossa imprevista. Non solo indiscrezioni in tal senso erano già uscite tra febbraio e aprile, ma anche in campagna elettorale Trump lo aveva lasciato intendere accusando la sua avversaria e l’allora presidente Obama di aiutare i terroristi in Siria. E non segna il definitivo successo della strategia russa, come il Washington Post, uno dei giornaloni Usa impegnati nella campagna anti-Trump, lascia dire al solito funzionario anonimo (“Putin won in Syria”). Anzi, nonostante le vittorie militari contro l’Isis e il puntellamento del regime di Assad, sul piano diplomatico il coinvolgimento russo in Siria è più vicino al pantano che al successo. Proveremo a spiegare perché.
Ma innanzitutto, qualche precisazione sul programma della Cia di cui stiamo parlando. Delle due l’una: o serviva a sostenere gruppi di ribelli “moderati”, e allora era militarmente irrilevante e, dunque, poco più che simbolica la sua cancellazione; o ad essere “segretamente” armati e addestrati erano anche gruppi ben più radicali, e allora era qualcosa di imbarazzante la cui chiusura era d’obbligo. L’esistenza di questo programma è divenuta di dominio pubblico un paio d’anni fa, quando è emerso che i 500 milioni di dollari stanziati erano serviti in realtà a formare circa 60 miliziani ritenuti sufficientemente “moderati”, ridotti a cinque perché nel frattempo gli altri si erano uniti ai gruppi jihadisti (Isis compreso).
Ad ammettere il fallimento del programma, che prevedeva l’addestramento di 15mila combattenti in tre anni, il generale Lloyd J. Austin, comandante del Centcom, il comando militare americano delle operazioni in Siria e Iraq, di fronte alla Commissione Forze armate del Senato. L’insuccesso del programma si spiega anche con i paletti posti dal presidente Obama, che non voleva rischiare di armare gruppi jihadisti (saggiamente), né di essere trascinato in un conflitto con la Russia, né di irritare gli iraniani compromettendo l’accordo sul nucleare. Ai ribelli anti-Assad infatti si chiedeva di limitarsi a combattere l’Isis, in pratica di non essere “ribelli”. E questo ha probabilmente portato molti di essi a unirsi alle milizie islamiste. Come può la chiusura di un programma ritenuto fino a ieri un fiasco, già morto e sepolto, diventare improvvisamente un “errore strategico” o un “regalo a Putin”? Forse perché a chiuderlo formalmente è il presidente Trump?
In realtà, il “game changer”, il punto di svolta in Siria potrebbe rivelarsi il primo cessate-il-fuoco – sebbene molto parziale, limitato all’angolo sud-occidentale del paese – a firma Usa-Russia, scaturito dal primo faccia-a-faccia Trump-Putin a margine del G20 di Amburgo lo scorso 7 luglio. Il ministro degli affari esteri russo Lavrov ha poi spiegato che Russia, Stati Uniti e Giordania istituiranno ad Amman un centro per coordinare tutti i dettagli. Ancora prima, però, le “quattro zone di de-escalation” approvate ad Astana lo scorso maggio da Russia, Turchia e Iran erano state discusse durante una telefonata tra il presidente russo Putin e il presidente americano Trump, quindi in pratica pre-approvate da Washington. Insomma, se sul lato Ucraina nessun “disgelo”, è sulla crisi siriana che Usa e Russia sembrano compiere progressi dimostrando di parlarsi e di voler cooperare dove possibile. Se da una parte gli Stati Uniti entrano in qualche modo nello schema guidato dal Cremlino, che con il processo di Astana ha soppiantato i colloqui di Ginevra, dall’altra proprio il ritorno dell’America nel dossier siriano, che Putin non ha potuto impedire, rende fragile il processo di Astana. Tant’è vero che l’ultimo round di negoziati in Kazakhstan, alla vigilia dell’incontro Trump-Putin, non ha registrato progressi sulle “de-escalation zone”.
Nonostante l’Isis sia vicino alla sconfitta e il regime di Assad ad una insperata sopravvivenza, il mosaico russo è lungi dall’essere completato e rischia ancora di frantumarsi, proprio per il ruolo guida nel processo politico che Mosca ha assunto su più tavoli, bilaterali e multilaterali, dove siedono potenze ostili tra di loro con interessi divergenti e spesso inconciliabili. Da una parte ha investito molto nel processo di Astana, in una transizione politica in Siria capace di preservare l’influenza di ciascuna delle potenze coinvolte – Russia, Iran e Turchia – nelle aree ritenute vitali per i propri interessi nazionali. Ma per riuscire deve portare Teheran e Ankara a raggiungere un compromesso. Non facile, perché gli iraniani considerano prioritaria la sconfitta di ogni gruppo ribelle rispetto all’inizio di una transizione politica, mentre i turchi puntano ad usare proprio i ribelli e i territori da loro controllati come risorsa nei futuri colloqui politici.
Dall’altra, ha siglato con gli Usa l’accordo sul cessate-il-fuoco nel sud-ovest del paese per scongiurare il rischio di una escalation con Washington e i suoi alleati. Non va dimenticato infatti che in Siria i russi si trovano pur sempre circondati da alleati dell’America: i curdi a nord, ma soprattutto Israele e Giordania a sud. Se con il cessate-il-fuoco gli Stati Uniti hanno di fatto riconosciuto il ruolo guida della Russia nel processo di pace in Siria, dal canto loro i russi – se pensiamo anche alla “deconfliction zone” che circonda la base Usa di al Tanf al confine con l’Iraq – hanno mostrato la volontà di riconoscere agli americani una zona di influenza nel sud della Siria, decisiva per la partita che Washington intende giocare per contenere Teheran, nonché di mantenere buoni rapporti con Israele, preoccupato della presenza di milizie iraniane ai suoi confini.
Non dimentichiamo qual era la posizione americana in Siria al termine della presidenza Obama: inesistente. Ora gli Stati Uniti sono rientrati in gioco. L’amministrazione Trump ha impresso una svolta decisiva alle operazioni anti-Isis, stringendo ancora di più la collaborazione con le Forze democratiche siriane (SDF), dominate dalle milizie curde siriane delle YPG, per liberare Raqqa. Anche al prezzo di far irritare, e non poco, il presidente turco Erdogan, che li considera terroristi. E infatti l’artiglieria turca ha preso a martellare le postazioni delle YPG nell’enclave di Afrin. Ha riconosciuto un dato di fatto, ovvero che la fuoriuscita di Assad non è la priorità, ma ha anche chiarito di considerarla inevitabile nel medio-lungo termine e dimostrato di non tollerare che il regime siriano oltrepassi la “linea rossa” dell’uso di armi chimiche. E infine, sta trasformando la Siria in un fronte di contenimento dell’Iran, di intesa con gli alleati arabi sunniti e Israele.
Lungi da una vittoria piena di Mosca, la safe zone riconosciuta agli Stati Uniti nel sud della Siria sembra un primo passo verso il riconoscimento di diverse zone di influenza tra potenze regionali e globali, un po’ come avvenne nel ‘45 in Germania e a Berlino. Dunque, la difficilissima composizione di tutti gli interessi in gioco, spesso divergenti, tra attori ostili, rende il successo dell’iniziativa russa tutt’altro che scontato e il rischio pantano più vicino di quanto possa apparire.
Proprio il ritorno americano, con cui Putin ha dovuto fare i conti, rende più difficile, forse impossibile, il pieno successo della cooperazione con l’Iran, che fino a ieri, fino all’insediamento di Trump alla Casa Bianca, era stata il pilastro della politica russa in Siria. I tre principali obiettivi di Teheran in Siria, infatti – mantenere al potere Assad e l’integrità territoriale del paese, garantirsi un collegamento terrestre con Hezbollah in Libano – confliggono apertamente con gli interessi dell’America e dei suoi alleati. La divisione del paese in zone di influenza per preservare gli interessi di tutti gli attori coinvolti contraddice il principio dell’integrità territoriale siriana. Il premier israeliano Netanyahu si è detto contrario al cessate-il-fuoco nel sud-ovest del paese, perché sebbene tenga le milizie iraniane lontane dai suoi confini, tuttavia rischia di rendere permanente la presenza militare iraniana in Siria. E infatti, come hanno fatto notare gli esponenti di Hezbollah dopo l’annuncio della tregua, la distanza dalle alture del Golan non gli impedisce di lanciare attacchi contro Israele, visto che i missili in loro possesso sono in grado di colpire il territorio israeliano dalla Siria senza bisogno di una presenza fisica nelle zone di confine.
Ciò che invece infastidisce Hezbollah (e Teheran) del cessate-il-fuoco siglato da Trump e Putin, è che di fatto riconosce una presenza militare americana sul terreno in Siria. Sarà una coincidenza, ma proprio all’indomani dell’accordo sono spuntate due nuove basi Usa a cavallo del confine siro-giordano, una in Giordania e l’altra nel deserto siriano. E nelle scorse settimane forze americane hanno bombardato alcune milizie pro-Assad sostenute dall’Iran mentre avanzavano verso la base Usa di al Tanf, al confine tra Siria, Iraq e Giordania. Al Congresso il segretario alla difesa James Mattis ha spiegato che si è trattato di semplice autodifesa, a protezione dei militari americani che si trovano in quella zona. La missione in Siria è mirata esclusivamente a combattere l’Isis, ha ripetuto. Peccato che, guarda caso, l’avamposto di al Tanf si trovi esattamente sulla via di collegamento terrestre tra l’Iran e il Libano, passando per Iraq e Siria.
Per ora la Russia non ha alcuna intenzione di esercitare pressioni su Hezbollah, che con migliaia di combattenti schierati in Siria gioca un ruolo di fanteria ancora essenziale per i russi. Irritare Hezbollah significa irritare gli iraniani e rischiare di perdere Teheran nel processo di Astana.
Tuttavia, questi attriti sono ormai nelle cose con il ritorno degli Stati Uniti nel gioco siriano, che pone sempre di più la Russia di fronte al dilemma di dover decidere su chi puntare come partner principale con il quale discutere e determinare il futuro della Siria: l’Iran, com’è stato fino ad oggi, o gli Stati Uniti? E’ uno dei risultati delle mosse dell’amministrazione Trump, la cui nuova politica in Medio Oriente, come abbiamo scritto in altri articoli per Formiche.net, ha come obiettivo principale quello di isolare e contenere l’Iran e, quindi, in Siria, di allontanare Mosca da Teheran. “Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili – come Siria e Iran – e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà”. Ecco il vero test per Putin, nelle parole pronunciate dal presidente Trump a Varsavia.
Certo, le nuove sanzioni non aiutano l’amministrazione Trump. Putin potrebbe decidere che la cooperazione con gli Usa in Siria non vale il sacrificio delle partnership regionali con Iran e Turchia su cui molto ha investito negli ultimi anni.