D’estate, se ne stava seduto davanti alla porta di casa, nel vestibolo tra il portone esterno di legno e la porticina a vetri che dava sulla sala che si apriva premendo il pulsante nel pomello.
Si faceva sistemare lì dalla donna di servizio, subito dopo pranzo, quando ormai il sole era in capo alla salita e aveva appena preso la discesa verso sera.
Se ne stava seduto, in silenzio, per ore. A guardare fuori. Fumava, ma poco.
Gli avevano concesso solo tre sigarette al giorno da quando, qualche anno addietro, un attacco d’asma per poco non se lo portava.
Aveva raggiunto quell’età in cui tra parlare, parlare poco o non parlare affatto non c’è più alcuna differenza. Così se ne stava zitto.
Quando riceveva delle visite, il più delle volte la donna di servizio doveva svolgere un’attività diplomatica perché lui era capace di starsene muto davanti agli ospiti per tutto il tempo della visita. In paese, anche gli ultimi amici ancora vivi pensavano che fosse uscito pazzo.
Una volta al mese, in giorni diversi per fortuna, si presentavano il medico e Don Sebastiano.
Al medico qualche cosa la diceva. Sempre per sfotterlo però. Diceva di manifestare dei sintomi in modo da indurre il medico a una qualche conclusione per poi svelargli che non era vero niente. Che quei sintomi lui non li aveva in modo da poter dire che come tutti i medici andava a muzzo. Il medico però, che era stato compagno di scuola del figlio maggiore, non si perdeva d’animo e il mese successivo tornava puntuale per il checkup.
Con Don Sebastiano era diverso. Non gli rispondeva mai. Neanche una parola. Quello parlava, mormorava un rosario dopo l’altro su l’aldiquà e sull’aldilà e lui con lo sguardo fisso verso la strada non gli rispondeva. Niente. Neanche un movimento di niente. Della testa, del naso, della bocca, delle ciglia, delle sopracciglia. Nzu, nenti.
Don Sebastiano, che aveva promesso di occuparsi di lui alla moglie – piissima donna – prima che se ne salisse in Paradiso, al punto di andarsene ripeteva un Padre Nostro e un’Ave o Maria al posto suo. Poi, gli dava una carezza sulla spalla e se ne andava con la camicia che colava di sudore.
E così le cose andavano avanti, un giorno dopo l’altro, tutta l’estate. Da Giugno fino a Settembre. La signora di servizio – vecchia pure lei – lavorava in quella casa da trent’anni. A tutti quelli che gli domandavano del vecchio, lei, usa ormai a tutto quel silenzio, a tutta quella comunicazione fatta di quotidiana, ripetitiva ed epiteliale abitudine, rispondeva sempre allo stesso modo.
Non fa niente. Non parla, non ride, non scherza. Ma, ascolta tutto. Poche cose gli sono rimaste a dargli gioia. La mattina presto si rade e ride quando si da dei colpetti con le mani sulle guance spargendosi l’acqua di Colonia. Sul viso, poi, compare una smorfia di compiacimento quando, verso sera, è forte la fanfara delle rondini. Qualche volta, muove perfino la mano come se volesse mimare il volteggiare degli uccelli che sono il chiasso dell’estate.
Il momento che però attende tutto un anno è quando, l’ultima settimana di Agosto, il figlio maggiore lo viene a trovare.
È l’unico che viene. Gli altri, da quando la mamma non c’è più, non ne vogliono sapere di lui, della vecchia casa, né della terra dove sono nati. Hanno mogli straniere, che stanno bene dove fa freddo e scirocco non c’è n’è.
Il figlio maggiore no. Solo, senza moglie e senza figli, non manca mai l’appuntamento.
Tutto avviene sempre allo stesso modo. La sera prima chiama al telefono per annunziare l’arrivo il giorno dopo. Io lo comunico al padre che, ovviamente, non mi risponde.
Dopo poco però, si alza e se ne va nella sua stanza, apre il cassettone e prepara i vestiti puliti per l’indomani: il pantalone bianco di lino e la camicia celeste con le maniche lunghe. Quella leggerissima. Con cura li sistema sulla sedia di fianco al letto.
La mattina dopo, mentre è in bagno, gli pulisco senza che se ne accorge i mocassini che mette solo in quell’occasione.
Il figlio arriva per ora di pranzo. Con una ventiquattrore. Tanto è il tempo che si ferma. Si sistema nella sua vecchia stanza per modo di dire. L’indomani, infatti, le cose, compreso il letto, sono al loro posto che pare come se non ci fosse stato nessuno. I due, padre e figlio, si salutano baciandosi. Non si dicono quasi niente, però. Si scambiano pochissime parole.
Dopo pranzo, se ne stanno seduti uno accanto all’altro nella sala vicino alla porta. Fino alle cinque. Poi, il figlio se lo carica in macchina e scendono al mare. Vanno al un paesino della costa dove, quando erano piccoli, il padre li portava a mare. Ci mettono circa mezzora. Dopo aver parcheggiato, come ogni anno, vicino alla villa, si vanno a sedere in un bar pasticcieria che mette i tavoli fuori. Il vecchio seduto con entrambe le mani poggiate sulla testa del bastone è finalmente appagato. Al cameriere ordina sempre la stessa granita. Una granita di mandorle. Consumata la granita, fa al figlio: – Ecco, l’estate è finita – .