L’ultimo Bollettino della Banca d’Italia (di cui nei giorni scorsi la stampa ha riportato ampi stralci) dice essenzialmente che siamo sul percorso di una ripresa lenta, incerta e soprattutto difficile. Lenta dato che, a oltre metà anno solare, la Banca d’Italia stima che la crescita economica del 2017 raggiungerebbe l’1,4%, un netto miglioramento nei confronti della crescita zero degli ultimi due lustri, ma non certo un dato tale da rilanciare l’occupazione, ridurre la povertà e far diminuire il peso del debito (un mostruoso 2.278.9 miliardi di euro) sul Pil. Molto inferiore comunque alla media Ue (2,1%, Spagna 3%, Germania 2,1%).
Incerta perché la realizzazione della stima-obiettivo dipende da numerose determinanti (geopolitiche o di mera politica interna), di cui l’Italia non ha nessun controllo. Inoltre è quasi interamente trainata – come rileva acutamente Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 16 luglio – dal settore dell’auto, ed in secondo luogo, dall’export, settori molto sensibili al contesto politico interno ed internazionale. E restano nodi gravissimi nell’occupazione (per i giovani e per gli ultra cinquantenni) e nel sociale.
Difficile perché lo stesso Bollettino ne prevede un rallentamento nei due anni successivi (1,3% nel 2018; 1,2% nel 2019). Quindi se si ipotizza un rallentamento, non ci sono motivi per essere allegri.
Il documento è stato accolto come un segnale che le politiche economiche degli ultimi anni (senza, però, specificare i punti salienti di dette politiche ed il periodo specifico di riferimento) stanno avendo un effetto positivo. Dovrebbe invece essere considerato come un monito: una ripresa lenta, incerta e difficile può essere rafforzata o indebolita dall’azione di governo. Anche di un governo che ha pochi mesi di vita a ragione della scadenza naturale della legislatura.
Per rafforzarla, e renderla (quanto meno in prospettiva, ossia nel 2018-19) meno lenta, è pericoloso pensare ad una politica di bilancio espansiva (quale quella tratteggiata nel libro del segretario del Pd, Matteo Renzi): i riflessi sul debito pubblico potrebbero essere immediati con un’ondata di sfiducia nei confronti dei titoli di Stato (e non solo) di emittenti italiani. Si dovrebbe, invece, contenere la spesa corrente e dare spazio agli investimenti. Tuttavia, le varie spending review non hanno dato risultati apprezzabili perché non hanno seguito un metodo analogo a quello adottato da altri Paesi. Anzi, la stessa Scuola Nazionale d’Amministrazione ha smesso di effettuare corsi in materia, pure di mero aggiornamento del centinaio di cicli formativi tenuti dal 1995 al 2008.
Occorre puntare su riforme che non costino (ai contribuenti), privatizzare gran parte del capitalismo municipale e regionale e rivedere il sistema tributario (esaminando anche la flat tax). Un programma per un governo di legislatura e non per un esecutivo i cui partiti sono già in campagna elettorale. Nell’immediato, si deve però giungere in porto con la legge sulla concorrenza depurandola dai numerosi particolarismi clientelari inseriti durante il lunghissimo iter parlamentare.
Nei restanti mesi della legislatura poco si può fare per aumentare le certezze. Il governo in carica, tuttavia, potrebbe fare quanto è in suo controllo. Predisporre, approvare in Consiglio dei Ministri e lasciare in eredità al suo successore due programmi: una per disboscare le selva oscura delle partecipate ed uno per ridurre il debito pubblico. Il tempo non manca. C’è però la volontà politica in una campagna elettorale che si presenta all’insegna delle mance?